7 Ottobre 2016 - 10:12

Alberto Bertoli: “Mio padre mi ha lasciato le sue canzoni e mi ha insegnato ad usare il cervello”

Alberto Bertoli

Il 7 ottobre del 2002 veniva a mancare Pierangelo Bertoli, il cantastorie modenese che intonò popolari ballate, raccontò la società e il fermento degli anni ’70, rivoluzionando il concetto del “fare musica d’autore”. A quattordici anni dalla sua scomparsa, abbiamo intervistato suo figlio Alberto Bertoli.

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Alberto Bertoli è l’artista di casa Bertoli. La sua inclinazione al canto lo rende il figlio più adatto a seguire le orme del padre. Sin da piccolo strimpella la chitarra e inizia anche a studiare la classica, ma poi imbraccia quella elettrica che gli è più congeniale. Ama immergersi nei testi del papà e li rielabora in maniera del tutto personale perché in fondo ha un animo rock.

Beneficiario di un crogiolante  calderone artistico grande quanto la stessa importanza che riveste il cognome “Bertoli”, Alberto nel corso di questi anni ha raccolto consigli, esempi e i modi di vivere di Pierangelo Bertoli e lo ha fatto non in tacita e passiva approvazione, ma con carattere e rispetto.

Pierangelo Bertoli

Pierangelo Bertoli

A.E: La passione per la musica è nata da sé o è un vizio di famiglia?

Alberto Bertoli: «Tra quattro figli sono l’unico che è riuscito ad appassionarsi alla musica e credo che musicisti un po’ ci si nasca. È come un tarlo che va poi alimentato con un pizzico di personale follia».

A.E: “Eppure angelo canta ancora” è il libro scritto da Marco Dieci in collaborazione con Leo Turrini. Verrà presentato il 16 di ottobre presso il Palazzo Ducale di Sassuolo. Quanto c’è di Pierangelo Bertoli in questo racconto di Dieci sottoscritto con Turrini e cosa dobbiamo aspettarci?

Alberto Bertoli: «Dovete aspettarvi un racconto di amicizia, molto aneddotico e poco tecnico, una sorta di diario di avventure. Marco era un ragazzino quando mio padre ha notato il suo talento, poi hanno iniziato a collaborare, a scrivere canzoni e ad andare in tournée insieme, fino a quando Marco non è diventato suo arrangiatore e direttore d’orchestra. Conoscendo Marco Dieci e Leo Turrini sarà spassosissimo e ve lo consiglio!».

A.E: Hai preso parte a “Diamoci una scossa”, l’evento tenuto lo scorso 23 settembre a favore delle popolazioni vittime del terremoto del 24 agosto. L’iniziativa è stata organizzata in collaborazione con il Bertoli fan Club. Quanto senti vicine le persone che a distanza di anni continuano a seguire e a sostenere tuo padre?

Alberto Bertoli: «Una bella iniziativa voluta e dal Bertoli fan Club – e ricordo – anche da La Locomotiva-fans Guccini. Col tempo si è creato proprio un “bel movimento”, infatti sono in tanti a venire ai miei concerti per cercare in me un ricordo di mio padre o semplicemente per curiosità. In molti si appassionano e sono fiero di questo poiché il mio papà mi ripeteva spesso: “Non posso lasciarti una canzone, devi farti la tua cultura”. Io la laurea l’ho presa e ho continuato anche a farmi una cultura musicale».

A.E: Anche tu canti. Senti il peso, la responsabilità di essere il figlio di uno dei padri del cantautorato italiano?

Alberto Bertoli: «Assolutamente no, non ne sento il peso perché sarebbe stupido e soprattutto irrispettoso nei confronti di una delle persone a cui ho voluto più bene nella mia vita. Ne sono orgoglioso, porto avanti la bottega di famiglia con gli oneri e i doveri che questo ne comporta».

A.E: In più occasioni ti sei esibito in canzoni appartenenti al repertorio di tuo padre, devo dire in maniera personale e senza incorrere in banali imitazioni. Quale brano ti emoziona interpretare maggiormente?

Alberto Bertoli: «Ci sono dei brani che apprezzo tantissimo perché ogni volta mi portano a fare dei viaggi e questo aspetto l’ho appreso dalla lezione cantautorale di mio padre. Su tutte, la canzone nella quale sento quasi di entrarci dentro per la potenza dei suoi versi è “A muso duro” perché sintetizza la mia e la sua visione, rivela un lato tutto nostro, in cui siamo simili se non uguali. E poi ci sono le canzoni d’amore che non sono mai scontate. È impossibile dimenticarne una piuttosto che un’altra perché sono viaggi come ti dicevo prima».

A.E: Il 26 novembre si svolgerà la 4° edizione del Premio Pierangelo Bertoli di cui curi la direzione artistica con Riccardo Benini. Perché credi continui a riscuotere successo?

Alberto Bertoli: «E’ una manifestazione che sta prendendo pian piano il volo e c’è molta più attenzione anche da parte degli artisti che aderiscono. Non escludo che nel corso del tempo possa diventare una targa per i talenti emergenti, poiché è a questi che mio padre ha dedicato sempre particolare attenzione. Il segreto del successo del “Premio Pierangelo Bertoli” è quello di non incoraggiare brani che siano meri tormentoni della durata di un’estate, ma di scovare nuovi autori in grado di saper raccontare in maniera veramente impegnata seppur tra le righe del pop».

A.E: C’è un aneddoto, un detto, insomma qualcosa che tuo padre era solito dire e che tieni bene a mente?

Alberto Bertoli: «Invitava spesso me e i miei fratelli a “ragionare con la nostra testa senza lasciarci condizionare”. Negli anni dell’università ho ritrovato questa ideologia nella parole di un docente di psicologia: “L’adolescenza finisce nel momento in cui si diventa genitori di sè stessi” e aveva ragione perché spesso per pigrizia (o per immaturità) la si dà vinta al prossimo, ma bisogna fare attenzione perché le scelte non si trovano sempre tra un “si” e un “no”. La vita ti indirizza verso strade diverse ed è lì che devi saper usare il tuo cervello. Dopo la musica è questa la più grande eredità di mio padre».

La chiacchierata con Alberto è quanto di più naturale poteva esserci per omaggiare la memoria dell’artigiano della canzone italiana, poiché se è valido il detto secondo cui è “beato colui che riesce a dare ai propri figli pane e radici” è altrettanto vero che è anche “beato colui che riesce a dare ai propri figli musica e cervello” e questo Alberto lo sa bene e ringrazia tutt’ora il suo babbo.

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