10 Febbraio 2015 - 13:19

Anton Cechov, “Il reparto n. 6″, (II/II)

Abbiamo lasciato, nella prima parte della recensione del racconto di Anton Cechov, il dottor Andrej Efimyc che inizia a frequentare il reparto n. 6.

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Il dottore, infatti, emblema cechoviano dell’ “uomo superfluo” (uomo che, frustrato nelle sue illusioni e murato in un’incomunicabilità esistenziale, si muove sullo sfondo grigio e opaco di un mondo privo di valori ed attrattive), sembra trovare nell’intelligenza del paziente Gromov, una possibile via di fuga dalla stupida vanità del mondo.

Certo, ci sono sempre i libri, ma come Anton Cechov fa dire al dottore, essi non possono sostituire la conversazione, il rapporto diretto perché se i libri sono le note, la conversazione è il canto. E tale conversazione inizia quasi per caso: mentre il medico inneggia alla figura di Diogene che, armato di un pensiero libero e profondo e del completo disprezzo dell’ignoranza umana, sarà più felice di tutti i re della terra anche rinchiuso, così com’è, in una botte, Ivan Dmitric Gromov, dal canto suo, ribatte che il Diogene del dottore è un fanfarone perché

comodo a starsene in una botte a mangiare arance e olive. Avesse provato a vivere in Russia, non dico in dicembre, ma anche solo in maggio, una stanza calda l’avrebbe voluta eccome. Si sarebbe incurvato tutto dal freddo!

Cechov, quindi, contrappone alla filosofia del dottore, che discetta dell’inutilità di tutto, finanche del dolore dal riparo, però, della sua posizione sociale, la realtà della sofferenza vissuta sul corpo (maltrattamenti) e nell’anima (reclusione) del paziente, scontata (la morte si sconta vivendo) nel reparto n.6.

Nel frattempo, in aiuto ad Andrej Efimyc, viene chiamato il medico provinciale Evgenij Fedoryc Chobotov che – Anton Cechov subito aggiunge – fa amicizia con l’infermiere capo e che ha un solo libro nell’appartamento.

Dopo diversi incontri con Gromov, il dottore incomincia ad assumere una visione diversa sulle cose. Non riesce a sopportare nemmeno più l’amico di un tempo, il direttore della posta Michail Aver’janic.

Anton Cechov, allusivo, afferma che il suo comportamento sembrava strano.

Si avvia l’ingranaggio della paludosa normalità. Gli nominano una commissione (di cui fa parte anche Chobotov) per verificare le sua facoltà mentali. A questo punto il dottore, malgrado aneli alla solitudine (Lucifero si ribellò a Dio probabilmente perché voleva la solitudine che gli angeli non conoscono), accetta l’invito del direttore delle poste a intraprendere un viaggio con lui. Esperienza, quest’ultima, che gli fa toccare con mano la grettezza della natura umana, in quel caso ben rappresentata da Michail Aver’janic e dalla sua dozzinalità.
Anton Cechov
Andrej Efimyc, al direttore delle poste che lo prega di ricoverarsi, risponde che la sua malattia consiste nel fatto che in vent’anni ha trovato un solo uomo intelligente in tutta la città, e quest’uomo è un matto. Basta questa affermazione per far meritare all’incauto dottore la reiezione, totale e irrevocabile, dal consesso sociale.

Con la scusa di invitarlo ad un consulto assieme a lui, Evgenij Fedoryc Chobotov lo porta al reparto n.6. Poi (Andrej Efimyc) indossò gli indumenti dell’ospedale: le mutande erano corte, la camicia lunga, la vestaglia puzzava di pesce affumicato.

In un primo momento il dottore, coerente con la sua filosofia, accetta tutto (Fa lo stesso!). Dopo un’ora, però, e mentre Ivan Dmitric Gromov dorme, una “noia angosciosa” prende il sopravvento. A questo punto sembra che sia lo stesso Anton Cechov a chiedersi:”Possibile che si possa vivere giorni, settimane, anni come quella gente?”.

Dopo l’affermazione (la vita è una maledizione!) del suo ex paziente, il dottore finalmente capisce: Ecco la realtà!” pensò Andrej Efimyc, e provò terrore. Terrore per la luna, per i chiodi dello steccato, per la fiamma lontana del forno crematorio.

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Il pugno di Nikita, infine, gli fa capire che quella imperturbabilità (atarassia) elevata a filosofia dell’Andrej Efimyc di un tempo, non era frutto di una speculazione “alta”, ma solo una comoda via di fuga dalla vita vera.

In questo racconto lungo, che ben può definirsi la più cupa delle novelle cechoviane illuminata, però, dall’utopia avveniristica di un mondo senza ospedali né prigioni, ben si ravvisa lo stile di Cechov; quel modo di scrivere, cioè, che il grande Tolstoj paragonò opportunamente alle pennellate degli impressionisti francesi, apparentemente messe a caso ma che, a distanza, offrono un “quadro chiaro, indiscutibile”: il quadro, appunto, della Russia di Alessandro III, tra il tramonto della società zarista e l’alba della rivoluzione.

Sono rimasto addirittura raccapricciato; non sono potuto restare nella mia stanza; mi sono alzato e sono uscito. Avevo proprio la sensazione di essere chiuso nel reparto n. 6. (Lenin)

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