24 Marzo 2017 - 10:00

Appropriazione culturale e moda: il caso di Gigi Hadid su Vogue Arabia

appropriazione culturale

Gigi Hadid posa con il velo per il primo numero di Vogue Arabia. La polemica nata in seguito agli scatti offre spunti per parlare di appropriazione culturale

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Nelle ultime settimane è scoppiata una polemica riguardante la prima copertina di “Vogue Arabia”, l’edizione mediorentale del celebre magazine statunitense. Come volto del primo numero della rivista la modella Gigi Hadid, reginetta delle passerelle e personaggio notissimo della moda da più di 30 milioni di followers sui social. La decisione sembra logica, visto che Gigi è per metà palestinese da parte di padre. Appena pubblicati i primi scatti col velo, la modella ha raccolto sul suo profilo Instagram almeno 1 milione di like.

Ma se lei ha puntato tutto sul desiderio della moda di accettare tutte le culture, le polemiche hanno invece trovato forza nell’idea che la rivista – e quindi la modella scelta per rappresentarla – dipingessero un simbolo culturale e religioso come un accessorio, un oggetto fashion legato a una moda come un’altra. Un’altra delle critiche rivolte alla rivista è stata la mancata scelta di una modella mediorientale per il suo primo numero arabo. Sarebbe stato un bel segnale, quello di immortalare in copertina una ragazza araba, soprattutto se si considera che questo è il primo fashion magazine del Medio Oriente ad essere pubblicato in due lingue. La scelta di una modella americana come volto del primo numero, quindi, ha rappresentato una forma di “appropriazione culturale”, di cui molto spesso si parla su internet.

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Gigi Hadid sulla copertina di Vogue Arabia

Certo, questo non è il primo caso di rappresentazione dello hijab come oggetto fashion e soggetto ai cambiamenti della moda: Dolce & Gabbana aveva di recente creato una linea di hijab. Anche in questo caso aveva fatto discutere l’idea che un simbolo culturale potesse diventare oggetto di mercato. E’ noto che lavorare ispirandosi a usi e costumi lontani richieda una certa attenzione, perché è facile incorrere in rappresentazioni sbagliate o alterate da modelli stereotipati, stravolti nella loro essenza o stravaganti.

La collezione Primavera – Estate 2016 di Valentino è solo un esempio di quanto prendere ispirazione da una cultura straniera senza le dovute attenzioni sia rischioso: aveva fatto molto discutere il contrasto fra le pettinature di chiara ispirazione tribale e un cast di modelle quasi tutte bianche. Quello dell’appropriazione culturale è diventato un argomento di discussione molto ampio anche nel mondo del web.

Questo venerdì avremmo potuto decidere di parlare del “velo” come simbolo culturale e religioso, ma l’articolo ha preso una forma diversa durante la sua realizzazione. Parlare di cultural appropriation nella moda è molto più importante. Illustrare i pro e i contro di una discussione del genere è più che mai fondamentale in un mondo che tende ad usare la parola – sia che si parli di culture rubate impropriamente, sia che vi sia effettivamente la campionatura e lo svuotamento di un fenomeno culturale – come uno scudo per le proprie discriminazioni.

Appropriazione culturale: definizione

Che cos’è quindi l’appropriazione culturale? Messa in termini semplici è prendere qualcosa da un’altra cultura considerata meno “valida” socialmente e usarla in maniera impropria, contribuendo a diffondere stereotipi e pregiudizi. In un suo articolo, Jarune Uwujaren scrive che questo fenomeno è storicamente un esercizio di potere. Si usano culture altrui gettandone via i background storici per farne icone e oggetti di espressione personale.

Questo genere di discussione è molto sentito negli Stati Uniti, “pentolone” di tante culture ed etnie diverse. Miley Cyrus, per esempio, ha suscitato parecchie polemiche per il suo utilizzo del twerking e di altri simboli della popolazione afroamericana per la promozione del suo ultimo album. Qual è però il limite fra questo e lo scambio culturale? Dirlo con certezza matematica è sicuramente molto difficile. Vedere il popolo occidentale come il brutto e cattivo che mastica e risputa le altre culture non è corretto, perché non è vero.

Tendenzialmente la globalizzazione ha reso tutti gli elementi culturali roba da mercato. Una sorta di Supermercato della cultura, ecco. Tuttavia, la sensibilità rispetto le usanze altrui è aumentata. Questo nuovo alfabetismo di ritorno porta la gente a volersi rapportare in maniera più corretta a ciò che diventa spesso e volentieri un simbolo vuoto. Certo, condividere una pettinatura non è appropriazione culturale, preferire rappresentare una data cultura utilizzando esclusivamente esponenti delle cosiddette “dominanti” forse sì. Il pensiero ritorna alla discussione nata in occasione della collezione Primavera – Estate 2016 di Valentino.

Mercificazione della cultura nel mondo della moda: esiste una cura?

Se esiste, siamo sicuramente molto lontani dal trovarla. E’ inutile negare che un effetto della globalizzazione sia proprio quello del “ciò che è tuo può essere anche mio”. Non è affatto una conseguenza negativa, se vista in chiave di opportunità per allargare i propri orizzonti. L’uso delle treccine afro non è appropriazione culturale, l’idea che una passerella rappresenti questa pettinatura solo tramite modelle bianche sì. I tatuaggi non sono appropriazione culturale, l’ultizzo di simboli maori per impreziosire la propria pelle sì. Non c’è niente di male nel voler rappresentare una cultura o un suo simbolo – vedi il caso della collezione di D&G, che in sè non aveva nulla di sbagliato – il problema nasce quando la rappresentazione diventa uno stravolgimento irrispettoso, una scusa per fare dell’arte o del commercio.

Nel caso specifico della moda femminile, l’appropriazione culturale ha più che mani effetti negativi se si tende a rappresentare le donne dal mondo come uno stereotipo, senza però dare loro possibilità di raccontare la propria cultura. Questo porta rabbia, pregiudizi e divisioni fra le diverse popolazioni del globo e ad oscurare gli aspetti reali delle usanze che non conosciamo ma che idolatriamo nelle loro versioni patinate da magazine. In particolare questo rende concreto il rischio di relegare in un angolo anche le problematiche e le questioni socialmente importanti riguardanti le donne e gli uomini che non rappresentiamo completamente o affatto.

Il pensiero va in particolare alla questione velo, citata all’inizio dell’articolo, che è visto spesso come una costrizione sociale, nonostante sono molte le donne mediorientali a difendere lo hijab come una tradizione e scelta individuale. In particolare, il femminismo mediorientale si divide in questo senso fra donne che rifiutano il velo, vedendolo come uno strumento di sottomissione, e quelle che ne rivendicano la scelta come simbolo di appartenenza e come credo religioso. In merito alla questione – che, come prima accennato, non è sicuramente riassunta dalle varie collezioni alla moda di hijab – è forse giusto dire che la libertà sta nella scelta.

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