28 Giugno 2015 - 17:21

Benjamin e l’hashish: una questione di estetica

hashish

Il filosofo tedesco Walter Benjamin condusse una serie di esperimenti sugli effetti dell’hashish. Qual è il valore filosofico di quei viaggi nell’ebbrezza?

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Tra il 1927 e il 1934, il filosofo Walter Benjamin, noto ai più per il suo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, condusse insieme ad amici, tra i quali spiccava anche il celebre Ernst Bloch, dei singolari esperimenti sugli effetti delle droghe, e dell’hashish in particolare, sui sensi umani. Di tali esperimenti restano dei verbali che sono stati in seguito raccolti e pubblicati. Ci si potrebbe chiedere perché mai un filosofo come Benjamin si sia preso il disturbo, non tanto di assumere una droga quale l’hashish, ma, piuttosto, di stilare, o far stilare, delle relazioni dell’esperimento; in sintesi: qual era l’interesse filosofico dei rapporti relativi a quelle ore di ebbrezza?

Benjamin e l’hashish: una questione di estetica

Benjamin e l’hashish: una questione di estetica

Chi abbia letto Le porte della percezione di Aldous Huxley potrebbe già avere una vaga idea della questione; verosimilmente l’interesse di Benjamin era rivolto non allo stato di alterazione sensoriale in sé, quanto, piuttosto, all’analisi di quella percezione del mondo “a sensi spalancati”.  Con parole diverse, il fine del filosofo era quello di vedere come potesse presentarsi il mondo una volta che le cosiddette porte della percezione fossero state aperte. Come è ben noto, da Baumgarten in poi, il dominio della conoscenza sensibile è attribuito all’estetica; in questi termini il tentativo di analizzare le alterazioni della conoscenza sensibile si configura come una questione di estetica a tutti gli effetti.

Se, da un lato, i sensi umani possono essere considerati il tramite tra ciascuno di noi e il resto del mondo, dall’altro, questi stessi sensi sono uno schermo, un filtro che limita gli effetti del “fuori” sulla mente. Come dimostrano i rapporti di Benjamin, l’hashish, così come la mescalina, assottiglia questo schermo, riduce l’efficacia del filtro: l’esterno invade l’interno e viceversa.

In uno dei primi resoconti Benjamin dice: “Vissi lì allora qualcosa di assolutamente unico nella mia esperienza: mi sprofondai letteralmente nei volti”. Uno dei numerosi indizi di quello strano acuirsi dei sensi nella percezione è la straordinaria importanza che si attribuisce ad alcuni stimoli: dei volti qualunque, di gente sconosciuta, diventano per Benjamin, sotto l’effetto dell’hashish, oggetto di immenso interesse. Il fatto che il filosofo non guardi soltanto ma “si sprofondi” nei volti rende l’idea della riduzione dei confini tra percipiente e percepito. Allo stesso modo si accentua la sensibilità nei confronti dei colori “che si identificavano appieno con la materia nella quale si presentavano”, degli stimoli uditivi e delle parole in particolare.

Benjamin e l’hashish: una questione di estetica

Benjamin e l’hashish: una questione di estetica

Tutto ciò, però, inizia a rivelare anche i problemi relativi a questo stato. Tanto per cominciare “la cattiva contemporaneità del bisogno di essere soli e del voler rimanere con gli altri […] si accentua”. Quella che Benjamin chiama cattiva contemporaneità è probabilmente dovuta, tra le altre cose, al fatto che confrontarsi con gli stimoli derivanti da un altro essere umano complica terribilmente le cose per chi si trova sotto l’effetto della droga. Il filosofo, infatti, evidenzia anche la difficoltà nel seguire i discorsi altrui. Di qui, quindi, i grandi limiti di questa immensa apertura: decodificare stimoli complessi diventa un’impresa non da poco. Se si è investiti dalle sensazioni, se la mente è invasa da esse senza tramite alcuno, diventa incapace di fare efficacemente altro; essa percepisce, diventa un tutt’uno con ciò che le sta intorno e, priva di distacco, aborrisce l’idea del fuori da sé.

Walter Benjamin sintetizza in questo modo le potenzialità della droga: “vorrei credere che l’hashish ha il potere di convincere la natura a concederci – meno egoisticamente – quello spreco della nostra esistenza che contrassegna l’amore. Se infatti quando siamo innamorati la natura si lascia sfuggire tra le dita la nostra esistenza, come monete d’oro che essa non può trattenere e a cui rinuncia per ottenere in cambio ciò che è appena nato, ora, senza poter sperare o potersi aspettare qualcosa, essa ci butta a piene mani nelle braccia dell’esserci”. Nonostante ciò , però, si è anche costretti ad ammettere, di fronte ai verbali dei suoi esperimenti, che aprire le porte della percezione significa esporsi al rischio di un totale annullamento in quel “fuori” che tanto teme il “mangiatore di hashish”. L’atto di gettarsi nelle braccia dell’esserci può assumere le connotazioni tipiche tanto della beatitudine quanto del viaggio all’inferno.

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