18 Dicembre 2016 - 14:20

Dante è meglio di Harry Potter, credete a me

Fidatevi, miei assidui venticinque lettori, Dante è meglio, ma molto meglio di Harry Potter

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Alla soglia dei quaranta, nel mezzo del cammin di mia vita (il giro di boa per Dante si fermava a trentacinque anni ma, si sa, la vita s’è allungata), m’è venuto lo sghiribizzo di rileggere l’Inferno.

Ebbene, dopo aver seguito il rumore del ruscello che ha condotto Dante e Virgilio fuori dalla selva oscura, nell’emisfero australe, ancora ammaliato dalla divin arte dell’Alighieri, non posso che riconoscere la supremazia di Dante sul maghetto Harry Potter.

Partiamo dalla constatazione che tutti i generi presenti nella saga della Rowling trovano piena cittadinanza anche nella Divina Commedia.

La magia? E come non rivelarla, ad esempio, nella selva dei suicidi? Qui, in un bosco orrido e strano, pieno di arbusti contorti e spinosi Dante, su invito di Virgilio, spezza una fraschetta.

Perchè mi schiante? Perchè mi scerpi? 

E’ il grido di dolore frammisto al sangue che fuoriesce da Pier della Vigna, insigne ministro di Federico II tramutato, al pari degli altri suicidi, in pianta di basso fusto.

L’avventura? E come può definirsi, se non anche avventuroso, il viaggio di Ulisse al di là di dov’Ercule segnò li sui riguardi acciò  che l’uom più oltre non si metta?

Il mitologico? Puah, a bizzeffe! Il gigante Anteo, alto sessanta braccia, invincibile perché la madre Terra gli dà nuove forze non appena tocca terra che, lusingato dalle parole di Virgilio, depone lui e Dante sul fondo ghiacciato del nono cerchio; e ancora il gran veglio che a Creta, dentro il monte Ida, sta ritto con le spalle volte all’oriente e il viso verso Roma. Ha la testa d’oro, il petto e le braccia d’argento, il ventre di rame, le gambe e il piede sinistro di ferro; quello destro sul quale si appoggia, invece, è di terracotta. Ebbene tutte le parti del Veglio di Creta, ad eccezion del capo, sono solcate da fessure: attraverso di esse gocciolano le lacrime che scendono nell’Inferno formando Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito, i quattro fiumi infernali.

Il pathos? C’è tutto, ex multis, nell’apparizione di Cavalcante De’ Cavalcanti che, sorgendo dall’arca e vedendo Dante, gli chiede come mai, essendo egli qui per altezza d’ingegno, non sia accompagnato da suo figlio. Il sommo poeta, allora, risponde che l’assenza è probabilmente da imputare al fatto che Guido ebbe a disdegno la teologia.

Come? dicesti “elli ebbe”? non viv’elli ancora? non fiere li occhi suoi lo dolce lume?

L’attimo d’esitazione di Dante male interpretato da Cavalcante, fa sì che l’afflitto padre supin ricadde e più non parve fora.

L’amore? Scontato è il rimando, primo fra molti, all’abusato amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona di Francesca da Rimini.

E lo humor ne l’Inferno di Dante? Certo che è presente. A questo proposito, si deve uscire dall’errore (molte volte alimentato da una cattiva vulgata proprio della scuola) di un Dante arcigno, a tal punto coerente e intransigente da non abbandonarsi mai, né in vita né nelle opere, al sorriso o all’ironia. Nulla di tutto questo. A chiusura del canto XXI, infatti, il ed elli avea del cul fatto trombetta di Barbariccia, sconcio quanto emblematico segnale sonoro agli altri compagni, certifica la presa in giro degli strampalati diavoli a danno proprio di Dante e Virgilio.

Per quanto riguarda la divinazione, il profetico-allegorico, poi? Valga, per tutti, il veltro evocato da Virgilio come unico “animale” in grado di far morir con doglia la lupa della cupidigia, la cui sua nazion sarà tra feltro e feltro

Orbene, il feltro è un panno modesto che può far pensare a umili origini del salvatore, ma anche alla provenienza da un ordine religioso. Il feltro, però, può rimandare pure al concetto di elezioni democratiche: di feltro, infatti, erano foderate le urne in cui si deponevano i voti per l’elezione dei magistrati. Qualcuno, infine, volle vedervi addirittura una designazione geografica: Feltro, starebbe per Feltre, località in cui il redentore sarebbe dovuto nascere.

La paura? E come non provarla al cospetto del gigantesco Lucifero conficcato nel ghiaccio della Giudecca da cui esce da mezzo il petto? Una sola, immensa testa dotata di tre facce di colore diverso, sotto ognuna delle quali sono allocate due smisurate ali di pipistrello: è dal movimento di queste che scaturisce il vento che ghiaccia Cocito.

Ma vi è di più. Dai sei occhi fuoriescono lacrime che si mescolano alla bava sanguinosa delle tre bocche in cui vengono maciullati in eterno tre peccatori: Giuda, che viene anche sgraffignato, dalla parte della testa; Bruto e Cassio, invece, inghiottiti dalle gambe.

In conclusione, tutti gli ingredienti dell’occhialuto Harry Potter sono presenti nell’Inferno del sommo poeta, con un’ovvia chiosa: il lettore che riuscirà a rimanere nella scia del e quindi uscimmo a riveder le stelle di Dante, verrà catapultato in un firmamento di cultura e sapienza che nessun Avada Kedavra potrà mai annientare o depotenziare.

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