20 Settembre 2016 - 10:57

Facebook e l’incubo del caschetto biondo

Dopo il suicidio della povera Tiziana Cantone, tutti gli italiani, a partire da quelli appena capaci di accordare una pariglia di sostantivi a una decina d’indicativi, hanno risposto alla chiamata di Facebook.

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E allora, da un popolo di commissari tecnici, eccoci tramutati tutti, con le nostre tavole della legge a tracolla, a soloni della privacy, a censori del così ci si sta su Facebook.

Illusi!  La verità è che Facebook, questa effe pudica su sfondo color pervinca, conosce ognuno di noi; e di ciascuno di noi, le sue paure. Già, proprio come, in “1984”, il Grande Fratello di Orwell conosceva l’unica paura di Winston Smith in grado di farlo consegnare, armi e bagagli, all’annientamento della spersonalizzazione.

La vulgata comune, a proposito del venerabile Licio Gelli, capo indiscusso della Loggia P2, parla di un archivio praticamente sterminato di cui era in possesso. Di ogni uomo, a prescindere che fosse amico o nemico, quel Gran Visir di Licio conosceva vita, morte e miracoli. E tra la vita, la morte e i miracoli, soprattutto le paure. Già, la paura, l’unico sentimento in grado di sottomettere qualsiasi uomo al ricatto perenne.

Eppure nessuno pensa al fatto che, con l’avvento di Facebook, anche gli incubi inchiavardati nelle segrete della nostra coscienza più profonda, potrebbero essere portati alla luce della condivisione. E, in alcuni casi, rovinare per sempre la reputazione che ci siamo costruiti per tutta una vita.

E sì perché Facebook non conosce selezione, non si lascia ammaliare dalle (a volte) rassicuranti correnti del fiume Lete. Nossignore, il social network più famoso del mondo conosce solo l’accumulo, l’affastellamento di ricordi su ricordi che, una volta in rete, possono essere sempre ripescati dagli abissi della sua elefantiaca memoria.

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Pigliate, ad esempio il mio, di incubo. Sono un direttore d’orchestra, di quelli che inaugurano le stagioni teatrali. Frequento persone che danno del tu al potere.

Tutto va ben, madama la marchesa.

Ma ho un amico. Che sta su Facebook. Un amico di quelli scemi. Di quelli che t’affatichi una vita a crearti una reputazione e poi…zac, vengono loro, e ti appioppano lo stigma dell’infamia. E quindi, la bussola va impazzita all’avventura, si sbriciolano i teatri,  gli amici raffinati se la svignano, le tue benemerenze s’involgariscono.

E non pensiate che non mi sia dato da fare per arginare il pericolo. Mi sono sbarazzato, come solo ci si può sbarazzare di un accidente, di tutte le foto su Facebook che richiamano quel periodo della mia esistenza. Sono arrivato addirittura a eliminare dagli amici l’amico di cui sopra. Eppure, il mio incubo non mi dà pace.

Una foto, c’è ancora una foto, testimone muta ma più ciarliera di mille pettegolezzi, che mi toglie il sonno e la ragione. Un’immagine dalle potenzialità devastanti, che io, pur tra mille e succulente blandizie, non sono riuscito a far eliminare dal Facebook di quello scemo del mio amico. Che in quanto scemo, ovviamente, è estremamente imprevedibile.

Teatro Verdi. Poco prima dell’ouverture, per la durata interminabile di un minuto, la mia schiatta di frac distinti e di violini aristocratici, guarda incredula il display del cellulare. Poi, quasi in ossequio a un muto intendimento, mi pianta all’unisono il nero e il mogano in cui è impresso il logo di Facebook direttamente negli occhi.

Passata la paura: è una innocua e deliziosa foto che la mia orchestra fa del proprio Maestro in ambasce!

E io, di rimando, li guardo grato, finalmente in grado di far perdere il pomo d’adamo in qualche binario morto delle interiora; in qualche passaggio segreto lontano mille miglia dalla foto di me adolescente, con un improbabile caschetto biondo platino, nell’inequivocabile omaggio al Nino D’Angelo di Nu jeans e ‘na maglietta. [ads2]