27 Ottobre 2015 - 12:42

Intolleranza al lattosio: definizione, cause, diagnosi e gestione

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L’intolleranza al lattosio è classificata tra le reazioni avverse non immunomediate ad alimenti e in particolare rientra fra le ipersensibilità di tipo metabolico

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Intolleranza al lattosio, definizione e cause

Il lattosio è il principale zucchero presente nel latte e ne costituisce circa il 2-8% in peso.

Si ottiene dal legame di due molecole più piccole (monosaccaridi) che sono il glucosio ed il galattosio e che insieme formano quindi un disaccaride. Nell’intestino tenue il lattosio è scisso dall’enzima lattasi (β-D-galactosidasi) nei suoi due costituenti base che, solo a questo punto, possono essere assorbiti tramite appositi canali.

La lattasi è prodotta dalle cellule che rivestono la superficie assorbente dell’intestino tenue, gli enterociti.

Se il latte ed altri prodotti lattiero-caseari continuano ad essere consumati dopo che la produzione dell’enzima si sia ridotta a livelli insufficienti, il lattosio non assorbito nel piccolo intestino passa nel colon dove è metabolizzato in anaerobiosi dai batteri qui residenti, con produzione di gas di diossido di carbonio, idrogeno e metano, e di altri metaboliti “tossici”.

L’azione osmotica indotta dal lattosio nel colon e la produzione di gas, causano i principali  sintomi addominali tipici dell’intolleranza al lattosio, e cioè gonfiore addominale, dolore addominale, flatulenza, diarrea (in qualche caso costipazione), eruttazione, nausea, vomito.

Ma oltre ai disturbi gastrointestinali, alcune persone lamentano al medico dei sintomi sistemici, incostanti ed aspecifici, ma molto comuni tra le persone che riferiscono di soffrire delle cosiddette intolleranze alimentari. Tra questi abbiamo cefalea, disturbi cognitivi, stanchezza, dolori muscolari, dolori articolari, palpitazioni, prurito, eczema, ulcere orali, poliuria, pollachiuria, rinite, asma.

Secondo alcuni studiosi tale corteo sintomatologico deriverebbe dalla produzione di metaboliti tossici da parte di batteri presenti nell’intestino crasso, quando essi sono esposti a carboidrati che non vengono completamente digeriti ed assorbiti a livello del tenue. Questi carboidrati sono stati raggruppati ed identificati con l’acronimo FODMAP (Fermentable Oligo-di and Mono-saccharides, And Polyols) , e tra di essi troviamo anche il lattosio, ma non saranno oggetto di questa discussione.

Perché l’uomo può andare incontro a questi disturbi? Il latte è nostro nemico?

La funzione principale del latte è quella di essere l’unica fonte alimentare per i mammiferi neonati.

Nella maggior parte dei mammiferi la produzione dell’enzima lattasi diminuisce con l’età, e nell’uomo questo decremento inizia già dopo i quattro anni di vita. Noi siamo gli unici mammiferi che continuano a consumare latte dopo i primi mesi di vita, anzi, siamo gli unici mammiferi a consumare il latte di altri mammiferi.

In base a queste considerazioni sembrerebbe che noi ci sforziamo ad ingerire qualcosa che facilmente può nuocerci e che magari è superflua.

In realtà il latte rimane un alimento nobile, sotto vari aspetti. E’ un potente prebiotico, favorisce cioè la dominanza di batteri come i Bifidobatteri ed i Lattobacilli, i quali non solo favoriscono essi stessi la degradazione del lattosio senza fermentazione, ma hanno dimostrato di avere proprietà immunomodulanti e antitumorali (indurrebbero una minor incidenza di tumori del colon, della vescica e dello stomaco). Il latte ed i suoi derivati apportano una grande quantità di calcio, che, insieme ad una discreta quantità di vitamina D (spesso integrata artificialmente), previene l’osteoporosi. Infine il consumo moderato di prodotti caseari, magari in sostituzione a cibi spazzatura come bibite in lattina e snaks ipercalorici, si associa ad una minor insorgenza di obesità, ipertensione e diabete tipo 2.

Quando è che possiamo andare incontro ad una carenza di lattasi e quindi ad una intolleranza al lattosio?

Il deficit di lattasi si distingue in primitivo e secondario. Il deficit primitivo presuppone un difetto nel gene che regola l’espressione della lattasi, si parla cioè di predisposizione genetica all’intolleranza al lattosio.

In Italia, uno studio ha dimostrato che il 51% dei settentrionali ed il 71% dei siciliani è portatore di una mutazione del gene per la lattasi tale da rendere quasi nulla la sua espressione negli enterociti, una prevalenza che ricalca un gradiente Nord-Sud comune a tutta l’Europa. Nel nord Europa solo il 5% della popolazione presenta questo difetto, che in realtà un difetto non è, ma solo il frutto di una spinta selettiva dell’evoluzione che circa 10.000 anni fa ha indotto questa modifica del codice genetico. Ciò avrebbe permesso ai popoli nordici di assumere maggiori quantità di latte, e quindi di calcio, li dove una bassa esposizione solare non favorisce un’adeguata produzione endogena di vitamina D, vitamina importante nel metabolismo del calcio, nel suo assorbimento e nella sua fissazione nelle ossa.

Oltre al deficit primitivo di lattasi esistono dei deficit secondari: sovracrescita batterica intestinale (SIBO), morbo celiaco, morbo di Crohn (quando si estende al piccolo intestino), infezioni intestinali, enteriti farmaco-indotte, radiazioni, chirurgia.

Ad eccezione della SIBO, dove batteri del colon colonizzano il tenue dando luogo a fermentazione del lattosio, in tutti gli altri casi il deficit di lattosio viene a determinarsi perché viene ad essere danneggiato l’intestino tenue e quindi le cellule deputate alla produzione della lattasi, gli enterociti.

Un’altra possibile causa di ridotto assorbimento di lattosio e di altri zuccheri a livello del tenue può essere il ridotto tempo di contatto con la superficie assorbente e, quindi, con i suoi enzimi. Ciò potrebbe essere dovuo ad un accelerato transito intestinale, fenomeno che può verificarsi ad esempio nell’ ipertiroidismo, in stati di agitazione e nell’abuso di sostanze stimolanti (caffè o integratori utilizzati a scopo dimagrante).

Come è possibile accertare una intolleranza al lattosio?

Sono disponibili varie metodiche.

  • Determinazione dell’attività enzimatica su campioni bioptici intestinali
  • Test di tolleranza al lattosio con determinazione della glicemia dopo carico orale di lattosio
  • Lactase DNA test (RT-PCR) per ricerca del genotipo CC13910
  • H2-Methane Breath Test dopo carico orale di lattosio

La prima metodica rappresenta il gold standard diagnostico ma è una metodica invasiva attualmente in disuso.

Il test di intolleranza al lattosio con determinazione della glicemia non è molto attendibile.

Il test genetico identifica una mutazione del gene responsabile dell’intolleranza al lattosio, ma è importante sapere che anche se l’esito è positivo per la mutazione CC13910, non tutti i portatori di questa mutazione manifestano la malattia.

Il test del respiro all’idrogeno (al quale si sta cominciando ad affiancare quello al metano), rappresenta il test più utilizzato, per la sua semplicità, economicità, e concordanza con il genotipo CC. Consiste nella misurazione di uno di quei gas prodotti durante la fermentazione batterica del lattosio, l’idrogeno. Tale gas, come anche il metano, diffonde nel sangue, e da qui una parte viene eliminata con la respirazione. Bisogna tenere in conto però che questo test dura in media quattro ore ed è possibile che insorgano i disturbi tipici dell’intolleranza al lattosio: dolore addominale, diarrea, flatulenza. In tal caso la diagnosi di intolleranza però sarà certa, perché si è ottenuta la risposta a quello che in allergologia viene chiamato test di provocazione. E’ importante che il medico, o colui che è addetto all’esecuzione del test, registri i sintomi del paziente durante e dopo un breath test, e se questi vengono a mancare nonostante un test positivo, allora si parlerà di maldigestione del lattosio e non di intolleranza al lattosio.

Tutto questo cosa significa? Significa che in medicina non sempre un test positivo indica malattia, deve essere il medico a mettere insieme le varie informazioni cliniche e strumentali nel valutare il paziente caso per caso.  Se i sintomi sono sfumati o addirittura assenti, nonostante i test indichino una possibile intolleranza al lattosio, dovremmo continuare ad assumere piccole quantità di latte ogni giorno, per favorire un processo che prende il nome di adattamento colico al lattosio. Tale fenomeno può indurre una negativizzazione del HBT anche nelle persone con deficit genetico di lattasi, le quali potrebbero arrivare a tollerare oltre 10 grammi di lattosio al giorno (equivalenti a circa due bicchieri di latte). Molti di noi probabilmente hanno un deficit di lattasi ma l’adattamento colico che si è instaurato non rende manifesta questa condizione. Ciò vuol dire che anche chi è intollerante al lattosio se accidentalmente ingerisce i pochi milligrammi di lattosio che possono essere presenti come eccipienti in un farmaco, difficilmente ne avvertirà la presenza.

Ma allora come gestire una intolleranza al lattosio?

La cosa più semplice da fare potrebbe sembrare quella di evitare l’assunzione di latte e derivati. Oggi però sono ampiamente disponibili sul mercato prodotti caseari delattosati, nei quali cioè il lattosio è predigerito grazie all’aggiunta dell’enzima lattasi durante il processo di produzione. Tali prodotti non perdono le loro caratteristiche nutritive e non sono alterati nelle loro proprietà organolettiche, fatta eccezione per una maggiore dolcezza più o meno apprezzabile.

Sono inoltre disponibili in farmacia delle capsule contenenti l’enzima lattasi. Questi “integratori” potrebbero essere assunti quando si consumano pasti fuori casa, dove magari non sono disponibili prodotti delattosati, non si vuole mettere a conoscenza i commensali del proprio problema e non si vuole rinunciare ai piaceri del palato.

Il consiglio degli esperti però rimane quello di consumare quotidianamente anche piccole quantità di latte o prodotti caseari a basso contenuto di lattosio, come yogurt e formaggi stagionati, associate all’assunzione di prebiotici e probiotici (come glicosaminoglicani e lattobacilli già presenti negli yogurt e negli integratori di fermenti lattici), al fine di ottenere un quell’adattamento del microbiota intestinale che potrebbe da solo far fronte a queste ed altre problematiche inquadrabili tra le cosiddette intolleranze alimentari.

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