14 Gennaio 2015 - 12:32

Islamofobia cu nu passettin annanz e nu passettin arret!

Islamofobia è la nuova parola da aggiungere. Io, in questa Italia: sorella dei francesi, amica dei mafiosi, sostenitrice dei politici e amante delle attese

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Cara islamofobia, a questo mondo a chi appartieni? Caro mondo, ma quand’è che hai adottato questa figliastra? Io, sono una tua figlia, piccolina, di venticinque anni compiuti, di un metro e cinquanta e più di altezza, di due occhi grandi color nocciola e capelli neri, son figlia del Mar Tirreno. Figlia di una cittadina con più nonni che padri, sono una figlia dei social network dove la vita si riflette come nei vetri dei luna park, in cui la tua faccia piccola si allarga e le tue gambe si allungano, come in un Je suis Charlie che diventa motto e scusa per denigrare chi è diverso. “Je suis a madamoiselle italien“, una che l’altra notte stava con i vetri appannati in auto, con la pioggia e le nuvole tutte intorno alla luna, lei e il suo fidanzato. Due ragazzi che erano lì per salutarsi, per dirsi: “Ciao, ci vediamo a marzo!”, ma questi due son finiti a chiacchierare per ore in macchina, nell’ultima notte a scambiarsi i pensieri e il coraggio sul mondo infetto dall’islamofobia.

Perché “Je suis Charlie” è scritto su tutte le vetrine di Milano, Salerno, Roma, su tutte le bacheche di Facebook. Mia nonna che ha visto l’ultima guerra mondiale, se è corretto dire ultima. Il postino. Gente di destra e di sinistra. Gente che non vota più. Gente che non ha mai votato. Gente che legge solo le prime righe o tra le righe. Gente che guarda solo le immagini e non ha mai visto una vignetta. Gente che odia gli arabi e arabi. Gente che rispetta Maometto, gente che lo adora e gente che non lo conosce e che immagina di conoscerlo e non lo accetta. C’è di tutto, oggi, sulle vetrine.

L’islamofobia ha colpito anche l’Italia, e il mio paese è grande, solidale, sempre pronto a schierarsi con e per vignettagli altri, ma l’Italia è invecchiata, perché è già stata colpita molti anni fa: dalle associazioni mafiose, da una libertà di stampa fasulla, da un governo corrotto che quando tuo figlio viene picchiato a morte dai poliziotti è colpevole, perché è un drogato. Il mio paese è vecchio, ma pieno di giovani, come me e te, che si accontentano del piccolo, della fortuna che è bene se ci si spiaccica in faccia. Cittadini con un lavoro sottopagato o a nero, che se non lo accetti c’è il cinese che verrà sfruttato. Ma la colpa è dello Stato non mia, è quel politico che deve dimettersi se ha sbagliato, è la puttana che ha scelto la strada, sei tu che non scendi in piazza per dire basta, e magari se lo fai passi solo un giorno diverso, perché non sei convinto, e questo lamentarti ti sta bene, deve essere l’altro a trovare una soluzione a sconfiggere la paura, l’islamofobia.

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Quando succede una tragedia c’è un momento in cui tutto si ferma e sembra di sentire in lontananza i singhiozzi dei morti, ma quella in realtà è la tua coscienza e la promessa che inconsapevolmente fai a te stesso: di essere migliore, di baciare di più, di ridere, di essere curioso e di mangiare la parmigiana di melanzane ogni domenica, di avere pazienza mista al coraggio, di essere un buon amico e soprattutto un buon cittadino. Dopo la tragedia di Charlie Hebdo, ero lì che leggevo i giornali, guardavo la TV, scrivevo un post su Facebook, e ho iniziato a paragonare la mia vita a quella dei giornalisti morti, a pensare alle esigenze che ho, su quello che potevo dare e non ho dato, sull’equilibrio fragile dell’esistenza e su quanto sia giusto continuare a credere in qualcosa.

In un partito di destra che vuole nascondere gli immigrati e annacqua i soldi che quest’ultimi portano, uno di sinistra che non riesce a riformare una legge ma sa benissimo come twittarla, una ragazzina che si scrive sulle tette CHARLIE con tanto di hashtag. Ma non sarà un “Je suis Charlie” a lottare contro il terrorismo, non sarà una manifestazione piena di islamofobia a identificare milioni di persone che da una settimana guardano un foglio satirico, laico, libero. L’islam non è solo guerra e distruzione.not_in_my_name

Not in my name“, scrivono con le loro matite i musulmani, perché c’è un Islam buono che non vuole la guerra, ma la pace! C’è l’islamofobia che forse sul vocabolario neppure esiste, ma che tradotto è il mio caro mondo che reagisce agli attacchi di assassini, folli in nome di una religione. Gente che non sa più cosa significa avere religione. Allora quand’è che ci sarà una rivoluzione? Quella che nelle società e nelle coscienze diventerà libertà, questa rivoluzione senza ritorno che si accorgerà che la religione è diventato un fatto sociale.

Una manifestazione che tramuta in rivoluzione, che ribalta una religione che non conosce razzismo, cristianofobia, islamofobia, omofobia, una religione con la libertà di coscienza, democrazia, tolleranza e il diritto di cittadinanza per ogni diversità, l’uguaglianza dei sessi e l’emancipazione delle donne, la riflessione e la cultura critica del religioso nelle scuole, nelle strade, nei media e su una vignetta.

Alla fine però, ci sono sempre io a parlare con il mio ragazzo, io che non ho contratto l’islamofobia, me ne sto con la sigaretta accesa perché sono giovane e la morte la vedo lontana, ma la sento vicina. C’è mia nonna, che campa a stento con la pensione, mio padre che è stanco e deve aspettare altri 10 anni per averla, c’è mia sorella, laureata che non trova lavoro e la notte fa la barista, c’è una nazione che si unisce solo difronte alle tragedie, c’è che alla fine, io e il mio ragazzo mentre lui lascia il Sud abbiamo deciso che: “a vit è nu cacamient e cazz, nu passettin annanz e nu passettin arret!

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