25 Gennaio 2017 - 20:00

Protezionismo e statalismo no-global, l’alba di una nuova era

protezionismo

Fra Brexit, Trump, protezionismo e referendum, la nuova tendenza anti-europeista delle sinistre e delle destre. Si avvia un processo di tramonto della globalizzazione liberista.

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Protezionismo – Sono trascorsi soltanto 7 mesi da quando il popolo della Gran Bretagna ha deciso in merito alle sorti politiche ed economiche del proprio paese. Nel frattempo l’Italia ha attraversato un importante periodo di campagna elettorale inerente al vaglio della famigerata riforma costituzionale; a essere in ballo, più che la rapidità degli atti legislativi, erano i principi democratici sui quali si fonda la democrazia italiana. Se i cittadini dello stivale avessero optato per il “Sì”, vi sarebbe stato un risparmio dei costi della politica pari a un caffè in più per ogni italiano (circa 80 centesimi all’anno). Inoltre, con il monocameralismo vi sarebbe stato un inevitabile accentramento dei poteri all’esecutivo, con l’effetto di poter approvare velocemente qualsiasi disegno di legge, anche il meno concepibile dal punto di vista sociale. Non è un caso che lo stesso Renzi abbia affermato che questo “snellimento” delle procedure parlamentari sarebbe servito esclusivamente ad accelerare leggi volte alla competizione italiana nel mondo globalizzato e liberista. Gli italiani, quelli più coscienti del “No” e quelli decisamente più ignoranti a riguardo, hanno optato per un “NO che non vale solo per la salvaguardia della Costituzione, ma per un rifiuto della globalizzazione politica ed economica.

Ipso modo, l’elezione del nuovo presidente repubblicano Trump denota un cambiamento degli equilibri geopolitici ed economici internazionali. L’americano medio, un tempo convinto sostenitore del cosmopolitismo e dell’espansionismo statunitense sui mercati esteri, è oggi indebolito dalla crisi finanziaria, è refrattario all’idea di  un nuovo imperialismo mercantile. La soluzione per i cittadini Usa è quella del protezionismo, rafforzato dall’idea di una “politica di correzione” degli errori e delle contraddizioni politiche interne al Paese. Una sorta di ripiego che molti democratici e repubblicani non accettano, soprattutto dinanzi alla prospettiva di affiancamento dello svilimento dei diritti civili auspicato, almeno formalmente, da Donald Trump. Che ai progressisti o ai conservatori dissidenti piaccia o meno, milioni di cittadini americani hanno scelto Trump, non per la discutibile etica che lo caratterizza (discriminazione omosessuale, razziale, ecc.), bensì per il rigetto di un processo di impoverimento finanziario che affligge il Paese e l’intero Occidente. Le corporations più importanti hanno speculato per decenni nel mercato azionario, creando bolle finanziare che hanno portato alla famigerata crisi del 2008, tutt’ora in corso. Certamente, più che il management bancario, sono state le famiglie e i cittadini di classe “media” europea e americana a pagarne le conseguenze dal punto di vista fiscale. Motivo in più per cui i popoli d’Occidente hanno deciso di non farsi più carico delle gravi responsabilità delle quali dovrebbe rispondere la  propria classe dirigente, di rifiutare un modello economico fondato sulla globalizzazione liberista, dove l’abbattimento delle barriere si limita a quello economico, non culturale.

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