14 Aprile 2017 - 17:13

“Un altro me”, la recensione del documentario sul “trattamento intensificato”per i colpevoli di violenza sessuale

Un altro me

“Un altro me”, il documentario di Claudio Casazza sul primo esperimento di trattamento intensificato in Italia per i colpevoli di violenza sessuale

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Reperire una sala dove poter vedere questo film non è semplice. Ma alla fine la trovi, ti siedi e aspetti l’inizio di “Un altro me”. Il film oggi recensito non è uno dei tanti, né uno come tanti. Si tratta del documentario di Claudio Casazza, con  Paolo Giulini, Francesca Garbarino, Andrea Scotti , Maritsa Cantaluppi e Luca Bollati, distribuito dalla Lab 80 Film. Il tema è quello dei reati a sfondo sessuale, di chi li commette e di chi li subisce.

Il documentario

Nel corso degli 83 minuti di film, l’argomento viene trattato in modo asciutto, cercando di conciliare tutte le istanze coinvolte. Sebbene il tutto si incentri sulla figura dei detenuti, sulla loro psiche e sul loro percorso all’interno del carcere di Bollate, non si dimenticano gli sconvolgimenti creati nella vita di chi è vittima. Un altro me non prende parti, analizza in maniera asettica eppure straordinariamente sensibile la realtà riguardante uno dei reati più diffusi e discussi della nostra società. Il film, semplicemente riprendendo la realtà dei detenuti, lancia un messaggio chiaro e non banale: c’è bisogno di una riabilitazione terapeutica, più che di una semplice punizione, ed è possibile ottenerla tramite una riabilitazione morale che passa dall’espiazione emotiva.

Un altro me

La visione del documentario è interessante non solo per gli addetti ai lavori, soprattutto alla luce dell’onestà con cui i terapeuti si rapportano ai detenuti, senza temere la verità ma ricercandola, cercando di abbattere le resistenze che il carnefice frappone fra sé e il riconoscimento del dramma, a volte della colpa stessa. La realtà che più fatichiamo ad accettare è che spesso chi è colpevole non riconosce il proprio come un reato. Molto spesso, ci si trova a giustificarlo, a minimizzarlo, anche fuori dalle mura di un carcere penitenziario. Basta fermarsi a parlarne in un bar, in mezzo alla strada e spesso lo sconto di pena il colpevole lo riceverà anche solo grazie agli “anche se” delle persone.

Analisi e suggerimenti del film

Quello che colpisce di questo documentario è che è davvero senza senza giudizio ma lucido nel chiarire cos’è la devianza. Colpisce l’analisi dei pensieri dei detenuti, che spesso faticano a riconoscere di avere addirittura una colpa; i dubbi dei terapeuti sull’esistenza di reali margini di cambiamento. Uno stupro cambia la vita per sempre, questo è il messaggio annunciato di questi 83 minuti. La testimonianza di chi ha subito una tale brutalità, nel corso del film, fa abbassare gli occhi di chi l’ha commessa: uno di loro incrocia le gambe, l’altro inizia a grattarsi la testa, nonostante la difficoltà nel capire di avere una reale colpa, nessuno mantiene lo sguardo alto.

L’analisi finale è che cambiare significa accorgersi che l’assoluzione data dalla società, dalla propria famiglia, è una bestialità. Che la vittima che racconta al gruppo il trauma subito è l’unico vero plotone di esecuzione, che davanti a lei sei indifeso e colpevole, anche se di fatto non è la persona che hai distrutto con le tue mani. Sono tutte, tutte la persona che hai distrutto con le tue mani e non puoi ricostruire. Puoi però ricostruirti, prendere consapevolezza, anche se la psicologa non sostiene più lo sguardo che le rivolgi o che rivolgi alle tirocinanti. Anche quella è una colpa, anche quella va riconosciuta, anche quel passo può aiutare a comprendere la bestialità compiuta e subita. Il documentario alla fine suggerisce timidamente che forse un giorno non se ne potrà più, uniti, vittime e carnefici, in un’analisi e in un’ammissione di colpa universale che possono davvero aiutare a cambiare la realtà, senza ambiguità 

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