4 Dicembre 2020 - 08:30

Ricordando Hannah  Arendt, una apolide del pensiero

hannah arendt

45 anni fa a New York si spegneva Hannah Arendt, una delle menti più brillanti del Novecento. Giornalista, filosofa, teorica della politica, tenace e irriverente nei dibattiti così come nelle sue opere

Hannah Arendt  si è spenta improvvisamente il 4 dicembre 1975. Era un giovedì sera, stava per ricevere degli amici. Nella sua macchina da scrivere fu ritrovato un foglio bianco con due epigrafi, considerate da allora il suo testamento intellettuale. Si trattava dell’incipit che avrebbe dovuto costituire la terza e ultima parte de La Vita della Mente, opera incompiuta, pubblicata postuma e in grado di stimolare riflessioni infinite.

Quello che ci si propone in occasione dell’anniversario della sua scomparsa, più che una ricostruzione biografica o prettamente filosofica, è delineare alcuni tratti distintivi della sua personalità che hanno contribuito notevolmente a orientare il suo pensiero, aldilà di ogni etichetta o classificazione.

“E Hannah è rimasta fedele”, come disse Hans Jonas nel discorso al suo funerale.

“Fedele alla radicalità che il pensare impone: senza trappole, senza artifici, senza amori impersonali (come le fu rimproverato da Scholem in occasione del suo scritto su Eichmann), fedele a quel cammino che le fu indicato appena diciannovenne. Fedele, forse, anche ad un amore che, al di là del consunto cliché della donna sedotta ed abbandonata e completamente fuor di luogo per una personalità orgogliosa e appassionata come la sua, ha fecondato la sua riflessione. Fedele, infine, ad un uomo che “aveva passato tutta la vita in una trappola” e che lei sapeva essere “una volpe astuta ma priva di scaltrezza”.

Il discorso funebre scritto dall’amico Hans Jonas condensa in poche battute il complesso profilo della filosofa ebreo-tedesca. Sebbene ella abbia fermamente rifiutato questo appellativo preferendo quello di teorica della politica, è indubbio che il suo pensiero sia riuscito a farsi spazio all’interno del panorama filosofico europeo e statunitense. Un pensiero radicale, scevro da pregiudizi di sorta, massimamente coerente e, per utilizzare una nota espressione di Ernst Vollrath, caratterizzato da un “impareggiabile coesione logica”.

Apolide in fuga, moglie amata, amica di intellettuali, studiosa stimata e criticata, né a destra né a sinistra. Tenace e irriverente nei dibattiti così come nelle sue opere. La sua riflessione è stata costantemente occasionata dalle esperienze di vita vissuta quali, dopo il 1933 si intende, la persecuzione, l’internamento in un campo di concentramento, la fuga e lo sbarco negli Stati Uniti.

La radicale banalità del male

Divenuta il fulcro dell’intellighenzia filosofica newyorchese, nel 1961 seguì come inviata del “New Yorker”, a Gerusalemme, il processo Eichmann. Il resoconto del processo divenne uno dei suoi libri più celebri grazie alla capacità d’attrazione che l’espressione “banalità del male”, entrata a far parte poi del gergo giornalistico, esercitò sulla riflessione intorno al male del XX secolo.

Un testo che fu bersaglio di dure critiche, non solo da parte delle istituzioni ebraiche ufficiali, degli ebrei tedeschi americani, ma anche degli amici di vecchia data. Inaccettabile appariva la tesi centrale, apparentemente paradossale, sostenuta dalla Arendt che sia possibile compiere il male senza particolari interessi o motivi malvagi da parte di uomini del tutto ordinari, tuttavia colpevoli di crimini atroci.

È nota la polemica con Gershom Scholem, il quale accusò la Arendt di non provare “amore per il popolo ebraico” e di non avere Herzenstakt (delicatezza d’animo). Egli, come molti, espresse le sue perplessità dopo aver letto Eichmann a Gerusalemme, e definì la tesi arendtiana uno slogan. Ben lungi dal configurarsi come un semplice slogan, la tesi del male banale, più che volerlo privare di consistenza, sottolinea quanto esso sia strutturalmente legato all’atrofia del pensiero e del giudizio. 

Nell’epoca del collasso morale, un’epoca in cui le nostre tradizionali categorie o norme generali di condotta rivelano la loro inadeguatezza per la valutazione dei fatti, laddove il confine che separa i criminali dagli innocenti è stato eroso, emerge l’importanza della capacità di pensare e giudicare, del discernere il bene dal male. Dinnanzi ad eventi fuori dell’ordinario, ad un regime che distrugge le categorie del pensiero politico e i criteri del giudizio morale, la comprensione è l’ultimo baluardo che ci rimane e che ci permette di riconciliarci con il mondo.

Nelle opere successive a La banalità del male, la Arendt continuò a mostrare la profonda attualità della sua riflessione che non molla mai la presa sul mondo reale, lontana dalle estatiche contemplazioni filosofiche. È la cifra del suo pensiero che segue con estrema coerenza costruendo orizzonti di senso non riconducibili a convenzioni speculative o territori già percorsi.

Il pensiero è tutt’uno con la vita ed è in se la quintessenza immateriale della vitalità; (…) Una vita senza pensiero non è affatto impossibile; in tal caso però essa non riesce a sviluppare la sua essenza; non solo è priva di significato; non è completamente viva. Gli uomini che non pensano sono come uomini che camminano nel sonno”.