Irpinia, il 23 novembre 1980. Trentasei anni dopo la distruzione e la disperazione

Trentasei anni dopo la strage che mise in ginocchio l’ Irpinia e che ferì l’Italia. Scorci di storie di chi c’era e c’è ancora

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Era il 23 novembre del 1980. Ore 19:34:52. Irpinia. La terra tremò in Campania e Basilicata, con epicentro proprio in Irpinia. Il terremoto colpì di domenica. Una forte scossa di magnitudo 6,5 della durata di circa 90 secondi con un ipocentro di circa 30 km di profondità colpì un’area di 17.000 km², che si estendeva dall’Irpinia al Vulture, posta a cavallo delle province di Avellino, Salerno e Potenza.

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I comuni più duramente colpiti furono quelli di Castelnuovo di Conza, Conza della Campania, Laviano, Lioni, Sant’Angelo dei Lombardi, Senerchia, Calabritto e Santomenna. Le tre province maggiormente sinistrate sono state quelle di Avellino, Salerno  e Potenza. Drammatico. I primi telegiornali parlarono di una scossa di terremoto in Campania. Solo a notte inoltrata la gente cominciava a fare i conti con la realtà. E quella consapevolezza si trasformò presto in silenzio e vuoto. Nella mattinata del 24 novembre un elicottero rilevò le reali dimensioni del disastro. Quella catastrofe lasciava spazio ad immagini di distruzione e paura.

«Ad un tratto la verità brutale ristabilisce il rapporto tra me e la realtà. Quei nidi di vespe sfondati sono case, abitazioni, o meglio lo erano.» (Alberto Moravia, Ho visto morire il Sud)

Uno dopo l’altro si aggiungevano i nomi dei comuni colpiti. Interi nuclei urbani risultavano cancellati, decine e decine di altri erano stati duramente danneggiati. Le vittime, 2.914.  Gli sfollati, circa 280 mila. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi. Trentasei anni dopo restano le storie di chi c’era. Di chi c’è. Il nostro cuore non è fatto di pietra. La pietra a un certo punto può andare in frantumi e sbriciolarsi. Ma il cuore non può andare in frantumi. E certe cose  ce le portiamo dentro, indelebili, come la memoria. Emilia aveva dodici anni. Aveva il pigiama e stava facendo i compiti. La casa tremò. Quel fremito le vibra ancora nelle ossa. Una bambina non sa cosa può fare un terremoto. Non sa che può distruggere. Mancò la corrente, la gente urlava per le strade. Impaurita.

Il cielo era rosso, l’aria era calda. C’era la luna piena. Antonio, trentasettenne, guardava la televisione.  A quell’ora la Rai trasmetteva un tempo di una delle partite della serie A giocate nel pomeriggio. Quando il pavimento cominciò a tremare per 90 interminabili secondi. Fino a crollare. Ricorda che la gente si riversò in strada per chiedere aiuto. In lontananza il suono delle sirene delle ambulanze e dei vigili del fuoco. Le voci della gente che si levavano dalle macerie, e  i soccorsi tardivi e insufficienti nonostante l’immenso sforzo. Matilde aveva sette anni. Ricorda che saltava felice sul letto, con amici. Non ricorda chi fossero. La paura ne ha cancellato il ricordo. Quello che non ha cancellato, è l’immagine di lei che cammina sulle macerie. I lampioni erano rotti, i fili penzolanti. Tutto era buio, tutto era tacito. Quella disperazione è qualcosa che mai cancellerà.

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Anna, detta Nannina, aveva all’epoca 43 anni, tre figli piccoli. Stava preparando la cena. Quella era di una di quelle sere calde, forse troppo. La casa rimase saldamente in piedi, solo qualche crepa. Ricorda l’istinto di portare fuori le sue tre figlie. Presto. Ricorda il terrore nei loro occhi. Case sparse, gente che urlava e che piangeva, bambini con i loro giocattoli stretti tra le braccia ma immersi nel terrore. Feriti, sangue, morti. Seppur sopravvivi senza un graffio, sai che le ferite te le porterai sempre dentro. Ognuno, a quell’ora, stava facendo qualcosa. Ognuno ha ricordi più o meno sbiaditi. Ma quello che tutti ricordano e ricorderanno è quello che quella forte scossa ha cancellato. Case, vite, storie. Li ha feriti. Ha ferito l’Italia.

«Fate presto. Vengono le lacrime nelle giornate di primavera e di autunno, con l’azzurro lindo del cielo ritagliato dal verde intenso del Partenio o, dall’altra parte, della montagna di Chiusano, la Bella Addormentata, e del Terminio fino all’Irpinia più interna e vera, Bisaccia, Cairano, Teora. Da lontano non si vedono le cose che nessuno vorrebbe vedere e che nessuno o quasi fa niente perché non ci siano». (Sandro Pertini, Presidente della Repubblica).

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Redazione ZON

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