18 Aprile 2018 - 07:44

Lost In Space: la sci-fi “spielberghiana” di Netflix

Lost in Space

Lost In Space: la recensione del nuovo remake della serie del 1965. Netflix impacchetta la fantascienza e la propone più leggera, in formato “famiglia”

Sulla scia degli anni ’80. Se dovessimo esprimere la piega che Netflix sta prendendo ultimamente con una frase, utilizzeremo di certo questa. Il revival del genere di fantascienza nelle serie TV del colosso streaming è ormai accertato. Basti pensare a Stranger Things, Dark, Black Mirror ed Altered Carbon, ultimo in ordine d’arrivo. E su questa scia si muove anche Lost In Space.

Durante la metà degli anni ’60, la CBS mise in onda uno show totalmente diverso da quello creato fino ad allora. Una serie che, si può dire, ha fatto da traino per la fantascienza del decennio degli ottanta, ispirando un regista su tutti: Steven Spielberg.

E sembra essere proprio lui il perno trainante di questo remake che Netflix ha voluto tributare allo show. Lost In Space strizza l’occhio incredibilmente alla concezione sci-fi del regista americano, sospesa tra mondi fantastici e una trama sociologica che ha al centro un elemento fondamentale: la famiglia.

Le (dis)avventure e i problemi moderni della famiglia Robinson

E qui risiede l’elemento unico di questa serie Netflix. Lost In Space sceglie come fulcro protagonista una famiglia intera, in viaggio, lontano dalla Terra, divenuta inospitale. Alla base vi è una degenerazione climatica.

I Robinson sono dei protagonisti atipici. Da una parte vi è il nucleo “vecchio”, costituito dal capofamiglia John e Maureen (Toby Stephens e Molly Parker), separati in casa. Al loro seguito vi sono i loro tre figli: Penny, Will e Judy (Mina Sundwall, Maxwell Jenkins e Taylor Russell).

Proprio in quest’ultima risiede il primo problema sociale che la serie presenta in background: la lotta al razzismo e al diverso. Judy è infatti nata da un precedente matrimonio di Maureen, ed è di carnagione scura. Nonostante ciò, nella famiglia viene considerata parte effettiva, mostrando da subito come lo show abbia una forte componente sociologica e unificatrice.

Ad avallare quest’argomento, vi è anche l’esempio lampante di Will. Il bambino, infatti, stringe amicizia con un robot (situazione “alla Spielberg”, basti ricordare E.T.) che inizialmente viene guardato con diffidenza dalla famiglia. Sarà proprio lo stesso protagonista a far cambiare idea a questi ultimi e a fargli accettare “il prossimo”, ad abbattere le barriere.

Lost In Space o solo Lost?

Tra gli elementi più interessanti del remake di Lost In Space vi è sicuramente la storia vissuta. Grazie ad un sistema di inserti analettici, ben evidenziati all’interno delle puntate, veniamo a conoscenza della vita dei personaggi prima della loro partenza.

Infatti, Matt Sazama e Burk Sharpless propongono vari flashback per aggiungere dettagli al background dei personaggi, oltre a fornire retroscena allo spettatore per mostrargli una visione totale. In questo meccanismo riconosciamo l’opera di un altro pioniere della sci-fi: J.J. Abrams.

Seppur in misura minore, l’atto è lo stesso compiuto dal noto regista ai tempi di Lost. I corposi racconti d’intermezzo servono agli spettatori ad aggiungere ulteriori tasselli alla trama, già ricca di per sé, ma resa completa da questi racconti. E ciò ricorda molto la funzione che ricoprivano nella serie di Abrams.

Le similitudini, però, non finiscono qui. Salta infatti all’occhio la similitudine tra la dottoressa Smith, villain della serie, e Benjamin Linus, storico villain della serie abramsiana. La natura ambigua e polivalente della dottoressa ricorda da vicino quella del personaggio di Michael Emerson, pur non denotando la stessa effettiva influenza.

La cura per la fotografia e gli effetti scenografici, invece, sono di prim’ordine, e rimandano ad un’altra serie del regista statunitense: Star Trek. Le luci e i colori utilizzati conferiscono a dare spettacolarità ad uno show già intenso di suo, facendogli assumere di diritto lo status symbol di ottima serie sci-fi.

Le note dolenti

Ma Lost In Space non è tutto rose e fiori. Allo show si potrebbe accusare il fatto di essere troppo “semplicistico”. Infatti, si può notare come le decisioni dei protagonisti, buone o cattive che siano, non pesino minimamente sulla trama, destinata ad un lieto fine “forzato”.

Di sicuro, gli sceneggiatori non hanno fatto molta fatica a costruire una trama già indirizzata dal principio. Carenti sono, inoltre, i colpi di scena, che in un panorama sci-fi dovrebbero essere di primaria importanza. Ciò conferisce a togliere mordente ad una trama che punta più sull’emozionalità, che sul vero e proprio intreccio.

Altro punto buio della serie è l’approfondimento delle side-stories. Alcuni punti delle vicende della famiglia Robinson sulla Terra restano, infatti, ancora sconosciuti. Probabile, però, che sia una scelta improntata alla realizzazione di una seconda stagione, in cui (speriamo) verranno sicuramente risolte queste incertezze.

Conclusioni: bene, ma non benissimo

In definitiva, Lost In Space si rivela un prodotto solido e vincente, gradevole e adatto alle famiglie. Lecito, però, aspettarsi di più da una serie “pioniera” della fantascienza, che si limita a portare a casa il risultato con il minimo sforzo.

Ottimo l’equilibrio tra mistero, tensione e rivelazioni, che garantisce nuova vita ad un prodotto che potrebbe diventare una serie di punta di Netflix.

L’impressione, però, è che lo show non abbia detto tutto. Converrebbe, dunque, attendere una seconda (probabilissima) stagione per avere un giudizio più completo ed uniforme del nuovo show.

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