16 Gennaio 2020 - 12:17

Natura e cultura nella prima domenica del villaggio di Castelcivita

castelcivita

Dalle bellezze delle grotte a quelle del centro storico: outdoor e la pagoda insieme a Castelcivita

Domenica del villaggio a Castelcivita.

“Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l’ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno

Se per Leopardi il gradito giorno della comunità era il sabato, laddove il piacere era nel fervore dell’attesa della domenica, per noi la domenica del villaggio diviene invece il vero dì di festa, il momento di una gioia presente e compartecipata, dove il piacere e la felicità non sono solo agognati, ma accadono qui e adesso.

Figli del “villaggio globale”, frutto dello spaesamento del mondo contemporaneo, i villaggi delle nostre domeniche ci riporteranno in una dimensione piccola, familiare, intima e aggregativa, in cui la quotidianità sa di relazioni ed è organizzata sulla perduta idea del bene comune.

Nei nostri villaggi troveremo i trattori per strada, la raccolta delle olive nelle domeniche di sole, il profumo del pane lievitato dal fornaio, i vassoi di dolci fatti dalle donne che ti danno il benvenuto e i tavoli del bar in piazzetta dove si gioca a briscola.

C’è ancora tanta verità nel modo di essere comunità in un villaggio.

Il primo villaggio in cui la gioia della nostra domenica prende vita è Castelcivita, borgo cilentano adagiato sul fianco occidentale degli Alburni, le cui case, viste da lontano, sono dette “a cascata” perché sembra che cadano tutte insieme verso il basso, lungo il pendio roccioso della montagna a cui appartengono e su cui fortemente si aggrappano.

Il “basso” verso cui queste antiche case tendono, è la vasta piana del Sele in cui domina il corso del fiume Calore, gioiello del parco nazionale del Cilento, sulla cui sponda destra sorgono le grotte, tra il nostro villaggio e quello della vicina Controne, patria del fagiolo.

E saranno proprio le grotte di Castelcivita la nostra prima tappa, in questa lunga e ricca domenica soleggiata da belle scoperte e da volti nuovi.

Partiamo in quarantaquattro, come i gatti della canzone dello zecchino, ma senza essere mai in fila, perché si sa, tutti gli outdoorini sono un po’ anarchici e sempre un po’ discoli. Ci aspetta oggi una passeggiata tra autentica natura e un interessante giro in mezzo alla cultura, in cui storia, paesaggi, usi, costumi e devozione si legano indissolubilmente per realizzare una giornata che andrà “oltre l’escursione”.

Entriamo così, con l’intero gruppone dei ferventi, nello scenario sotterraneo del Cilento, quello arcano e impenetrabile del complesso di cavità carsiche che si estendono per circa 4200 m in lunghezza e che rappresentano l’altra parte della bellezza di questa terra, quella nascosta.

Dalle cime della montagna al suo ventre. Camminiamo in mezzo a un creato non più luminoso e vicino al cielo come di solito, ma in quella surreale e misteriosa delle viscere, dove l’acqua ha plasmato e rimodellato il visibile con la sua azione ribelle e costante, e la forza del tempo nel corso dei secoli, dei millenni, ha svelato.

Uno spettacolo vivo, dove l’acqua che erode e corrode, che cambia e trasforma, che distrugge e ricrea, che inventa e modella, continua la sua opera indisturbata mentre noi la visitiamo.

Attraverso le fenditure delle rocce, l’acqua arriva nella grotta penetrandovi goccia a goccia. Ognuna di quelle gocce che vediamo cadere contribuirà alla creazione di forme nuove e nulla andrà perduto, lasciando, attraverso il carbonato di calcio che avrà aderito alle pareti, per sempre la sua traccia.

La nostra oggi è una escursione di circa 1 km tra le più ardite esecuzioni di stalattiti e stalagmiti, in un suggestivo scenario di sale e gallerie: la sala del Guano dove si assiepavano fino agli anni ‘60 i pipistrelli; la sala del Castello in cui le stalagmiti sembrano formare nel loro complesso un castello medievale; la sala del Coccodrillo che ci fa immaginare le sembianze dell’animale; la sala del Trono che ricorda un sovrano seduto sul suo trono; la sala dei Pozzi e infine la cavità più grande, sala Bertarelli, che prende il nome dal suo scopritore.

Siamo in uno dei complessi speleologici più vasti dell’Italia meridionale a rivivere la magia della storia, ripercorrendo un tracciato che ha inizio nell’era paleolitica e giunge fino ai giorni nostri, portandoci le tracce del passaggio dall’uomo di Neanderthal all’homo sapiens.

Così, dopo questa immersione in uno dei più affascinanti patrimoni del Cilento nostrum, lasciamo le grotte – conosciute anche come grotte del diavolo o grotte di Spartaco, dal nome del gladiatore che, ribellatosi al proprio Imperatore, pare si fosse rifugiato da quelle parti – e c’incamminiamo verso il nostro borgo arroccato.

Eccola Castellùccë, come la chiamano i compaesani in dialetto cilentano, a quasi 5 km da noi, a 587 m sul livello del mare, che ci aspetta alla fine di questa passeggiata in pendenza in mezzo agli olivi verdi e alla viti spoglie esposte al sole.

Con 1600 abitanti sulla carta e 600 effettivi che popolano il paese, Castelcivita è “tutto un centro storico” di viuzze e scalini, portali con architravi in pietra calcarea e stemmi di nobili famiglie, slarghi improvvisi, piazzette silenziose che affacciano sull’alto Cilento e signore non più giovani avvolte negli scialli di lana scura che ci guardano da lontano.

Conosciuta già nel XV sec a.c. con il nome di Oppido Alburno e nel XIII in Castelluccia, nome del nuovo centro fortificato di cui rimane la torre angioina, Castelcivita vanta un “passato di resilienza”.

Durante le fasi dei Vespri siciliani si oppose validamente all’avanzata delle truppe siculo-aragonesi, mentre nel marzo del 1799 seppe difendersi dall’assalto di una divisione repubblicana francese, grazie alle forze di uomini capitanati da Gerardo Curcio di Polla, detto Sciarpa, e pur essendo inferiori per numero, respinsero la colonia franco-napoletana “a colpi di pietra scagliati dall’alto”, in nome della bandiera borbonica.

Rappresenta, questo episodio, uno dei più clamorosi eventi della repubblica partenopea che il Cilento può vantare.

Ricordando le battaglie del passato ci è venuta fame e intanto, camminando e chiacchierando, siamo arrivati alla fine della sterrata. Al lavatoio ci aspetta una sorpresa: un banchetto di sanizze leccornie, pane, olio e vino rosso per onorare il territorio e il magico pentolone di Outdoor in cui bollono i fagioli con la pasta!

Gli Outdoorini sono finalmente in fila e, ciotola dopo ciotola, riempiono la pancia mai del tutto sgombra. Un brindisi goliardico al convivio come vuole il rito della “domenica a casa” e siamo pronti alla scoperta dei segreti del nostro villaggio.

Ci accompagnano e ci guidano, nel nostro giro culturale, le donzellette dell’associazione “la Pagoda”.

Siamo ora nella Torre angioina di Castelcivita, edificata dai francesi nel XIII sec., alta 25 metri con un diametro di 15, nel punto più alto del paese, quella che salendo, per pendenza, sembrava irraggiungibile da lontano.

I suoi quattro vani definiscono, dalla prigione nella scarpata alle camere da letto poste in alto, la vita del feudatario del tempo.

Oggi, all’interno della torre, c’è il museo della civiltà contadina che tutela e custodisce la memoria di un tempo antico a noi ancora vicino, quello dei nostri nonni e della loro quotidianità segreta, che si viveva in uno scambio reciproco con la terra, più che con lo smartphone.

In ogni piano sono esposti reperti e opere d’arte legate alle grotte e al territorio. Suppellettili, telai e stoviglie delle cucine del ‘700/’800; aratri e attrezzi legati alla lavorazione della terra e al lavoro nei campi; utensili, manufatti tessili e arredi ricamati che ricostruiscono la tipica camera da letto dell’epoca.

Tra questi la vrasera, il braciere di una volta; o’ rinale, il vaso da notte; pala per grano in pietra che veniva usata per movimentare il grano; il pagliaro, ricovero temporaneo di contadini e pastori quando erano fuori casa, costruito con materiali reperiti in loco; i cucchiai di corna di montone; il collare di ferro spinato per cani a guardia delle pecore contro i lupi; i fierri pe li fusiddi, per lavorare la pasta a mano; fuso del telaio per filare a mano; macina portugal lo spremiagrumi; m’buttigliatrice per imbottigliare il vino.

Sono solo alcuni degli oggetti della tradizione contadina che ci ricordano da dove veniamo.

Ma la giornata non è finita qui. Le donzellette della Pagoda ci porteranno “in sul calar del sole” tra le viuzze del centro storico e poi alle tre chiese principali: chiesa di Sant’Antonio dove si accede per una piazza, in cui qualcuno riconosce l’altare del ‘700, poi la chiesa di San Cono, detto il taumaturgo, dopo aver varcato il portone della Perdonanza, infine in una stradina stretta, alla chiesa di San Nicola di Bari.

Ma per dirsi culturale un giro non può non rendere omaggio ai prodotti tipici della terra che ci sta facendo conoscere.

E se il cibo è cultura, noi approfondiamo ancor di più i segreti di questa cultura attraverso gli assaggi dei suoi dolci e i suoi prodotti: raffaiuoli, tipici dolcetti con pan di spagna e glassa al limone e morselletti con le mandorle, simili ai cantuccini; ceci e cicerchie, mandorle, lenticchie, farina di grani antichi e infine la regina di Castelcivita : la patata biancone, patata di fossa o di montagna, la “pomme de Terra” coltivata nei pianori dei monti Alburni a 1000 m di altezza.

Trapiantata a fine maggio e raccolta a ottobre, conservata nelle fosse di montagna dopo aver goduto del calore estivo che la rende compatta nella polpa e ricca di sali minerali e nutrienti, questa patata è la vittoria della biodiversità che trova spazio solo nei piccoli centri rurali, dando voce alla tradizione e divenendo progetto sostenibile di un’intera comunità.

Siamo in una terra in cui i contadini sono custodi di semi e quindi ambasciatori di conoscenze e saperi.

E noi, oltre il “fascio dell’erba e il mazzolin di rose e di viole”, che portiamo a casa dopo ogni escursione, porteremo oggi, ognuno con sé, l’affascinante racconto di una domenica del villaggio, la cui bellezza è la memoria di ciò che eravamo e la scelta di ciò che saremo.

“la magica atmosfera delle grotte è un percorso ricco di stalattiti, stalagmiti, caverne imponenti come basiliche, adorne di colonne guglie candide come la neve, obelischi e pinnacoli, e trine, come intessute da dita di fate”

nicola zonzi