24 Gennaio 2020 - 08:00

1917: l’anti-eroismo e l’orrore bellico raccontato da Sam Mendes

1917

Con 1917, il regista Sam Mendes racconta le esperienze di guerra di suo nonno. Una prosa esistenziale, che però è messa in secondo piano dalla tecnica

La guerra“. Non esistono due parole che, accoppiate, possano formare un nome comune con un significato più subdolo di questo. E, del resto, gli appassionati di cinema ormai ci sono abituati, a vedere le lotte più tristi e ignobili che l’uomo abbia potuto regalare nella sua esistenza trasposte su schermo. Prima e Seconda Guerra Mondiale hanno tracciato un solco indelebile tra passato e futuro, hanno insegnato all’umanità a rispettarsi. E, in 1917, questa lezione Sam Mendes la fa tutta sua.

Il nuovo film del regista si presenta come un vero e proprio omaggio al proprio nonno, Alfred Hubert Mendes, che aveva combattuto per due anni sul fronte francese servendo nella 1st Rifle Brigade. Ma, nonostante questo, l’argomento delle guerre passate è già stato battuto più e più volte, da tantissimi registi di successo. Cosa fare, dunque, per rendere la storia più accattivante e rendere più interessante la visione di questo film (attirando anche gli spettatori)? Semplice: Sam Mendes ha deciso di girare questo intero film come fosse un unico piano sequenza. O almeno, ingannevolmente, così è stato presentato il film.

1917 è in realtà composto da vari piani sequenza, montati ad hoc (con l’ausilio del direttore della fotografia Roger Deakins) per sembrare un’unica ripresa da 1 ora e 59 minuti. Proprio per questo, ai Golden Globe il film ha fatto incetta di premi dal punto di vista tecnico. Siamo dunque di fronte al film di guerra perfetto? Certo che no, e a breve vi spiegheremo il perché.

Ma andiamo con ordine.

Inghilterra contro Francia

1917 è un film di guerra. E, come tale, si rifà ad un episodio ben preciso accaduto durante i conflitti tra Inghilterra e Francia. La storia è ispirata ai racconti dello stesso nonno di Sam Mendes. Due giovani caporali, William Schofield (George MacKay) e Tom Blake (Dean-Charles Chapman), sognano la fine della guerra o quantomeno un (breve) permesso per tornare dalle loro famiglie.

Le loro speranze vengono presto interrotte da ordini dall’alto, quando un Generale affida loro una missione quasi impossibile: raggiungere un altro battaglione, ben oltre la terra di nessuno e il fronte tedesco. Lo scopo è quello di consegnare al comandante un importante messaggio: annullare un attacco che, dopo le nuove informazioni in possesso dagli inglesi, sarebbe semplicemente suicida, e salvare così la vita di oltre 1600 uomini.

I due, quindi, si avventurano in una missione davvero impossibile, una solitaria corsa contro il tempo attraverso il fronte occidentale avventurandosi in territorio nemico. Nel 1917, all’alba di quella che sappiamo essere la fine della Prima Guerra Mondiale, le imprese di questi due soldati saranno fondamentali.

Gli orrori della guerra

In 1917, Sam Mendes lancia subito un messaggio urgente, forse anche provocatorio, per condannare la stupidità della guerra. Assistiamo dunque a scenari di crudo realismo e violenza (condita anche da un po’ di gore), e ad un obiettivo ben preciso da parte del cineasta. La guerra è orrore, è tragedia, e non c’è nulla di bello in tutto ciò.

Più che un semplice war movie, dunque, 1917 diventa un dramma quasi esistenziale sulle vite alienanti di giovani soldati costretti a combattere contro la propria volontà. E questa negligenza la avvertiamo tutta negli sguardi terrorizzati di George MacKay e Dean-Charles Chapman, che diventano protagonisti smarriti, timorosi, non pronti. Ma gli stessi combattenti non sono altro che lo sfondo paradossale della vera protagonista: la guerra.

In alcuni momenti la regia di Mendes regala squarci meravigliosi alla Terrence Malick, salvo scivolare poi in auto-compiacimenti che stoppano incredibilmente la magia. Dal punto di vista tecnico, il film è davvero ottimo. La fotografia targata Roger Deakins (Blade Runner 2049) è ormai un marchio di fabbrica, che copre perfettamente i tagli di un montaggio un po’ traballante in alcuni punti.

Le scenografie sono di livello altissimo. Dennis Gassner, fido collaboratore di Mendes, riesce a ricreare gli ambienti “sporchi” e maciullati della guerra di trincea, con attenzione certosina ai dettagli. Insomma, potremmo definire 1917 come un tripudio di tecnica. E questo andrebbe anche bene.

Peccato che manchi tutto il resto.

Solo spettacolo

Eppure, la sensazione che pervade gli spettatori alla fine di 1917 è quella di aver assistito ad un impianto scenico formidabile. E basta. Il film di Mendes ha tanti difetti. Per cominciare, l’ossessione per il piano sequenza da parte del regista porta con sé strascichi indelebili nel ritmo del film, che soprattutto a metà crolla vertiginosamente.

La sceneggiatura resta approssimativa, segno di una narrazione molto piatta e di una suspense che svanisce subito. Su questo aspetto, il regista si sarebbe dovuto concentrare di più, in barba ai tecnicismi. Vi è infatti l’impressione che l’esercizio stilistico prenda sempre il sopravvento, a discapito dell’emozionalità del racconto e anche dell’intento stesso del film. E non è un aspetto facile da digerire.

La regia di Mendes, per quanto pulitissima, cerca sempre l’estrosità in maniera quasi ossessiva. Come se Sam volesse per forza auto-compiacersi. E il film ne risente. Inoltre, anche dal punto di vista del montaggio, vi sono stacchi molto netti che fanno crollare miseramente l’illusione del piano sequenza unico.

Infine, per quanto l’intento sia nobile, 1917 pecca in quella che dovrebbe essere la sua “arma segreta”: l’unicità. Di drammi bellici su schermo se ne sono visti davvero troppi per far gridare al capolavoro, da Platoon a Salvate Il Soldato Ryan, passando per La Sottile Linea Rossa di Malick, a cui il regista si è palesemente ispirato. Certo, in tempi come questi è bene ricordare le assurdità della guerra. Ma è anche bene cercare di costruire sopra una narrazione fresca, magari meno epica ma più particolare. E l’opera di Mendes contravviene completamente a questo avviso.

Ecco perché il termine “capolavoro“, come azzardato da qualcuno, per quest’opera non è da prendere in considerazione. Nella maniera più assoluta.