Sam Gadner (Keir Glichrist) soffre della sindrome di Hasperger, un disturbo pervasivo dello sviluppo, connesso all’autismo. Alla soglia dei diciott’anni, sente che è arrivato il momento di uscire dal proprio guscio ed aprirsi, con timidezza, alla vita, quella vera.
Vittima dei coetanei che lo additano come “strano”, ma guidato dalla terapeuta Julia,(Amy Okuda), Sam intraprende un emozionante percorso di crescita, alla ricerca della propria indipendenza. A tendergli una mano nei periodi bui ci saranno anche la madre inquieta Elsa (Jennifer Jason Leigh), il padre bonario Doug (Michael Rapaport) e la sorella un po’ pestifera Casey (Brigette Lundy-Paine).
Sam matura un rapporto controverso nei confronti dell’ambiente familiare. All’interno delle mura domestiche, si sente rassicurato, ma anche limitato. La sua stanza è una fortezza invalicabile, ma anche il nucleo in cui si addensano le più profonde inquietudini.
La paura è una funzione biologica che stimola due tipi di reazione: la lotta o la fuga. Nel nostro caso le due componenti si alternano in un frenetico up and down. Un modo per placare l’ansia? Analizzare il mondo dell’Antartide, dove i pinguini diventano amuleti e modelli da seguire. “Adelia, Antartico, Imperatore, Papua” è il mantra del nostro Sam.
La famiglia di Sam, dietro la facciata di apparente perfezione, non è immune da tratti atipici. Elsa sacrifica il suo ruolo di donna a favore di quello di madre. La femminilità dimenticata ritornerà sotto forma di trasgressione. Doug manca di coraggio in un momento cruciale. Casey, invece, affronta con confusione vicende sentimentali e sessuali.
Ma la svolta è dietro l’angolo ed ha un “odore buono e neutro“. Sam sperimenta i primi baci a fior di labbra, le passeggiate nel corridoio durante l’intervallo, in una parola: la condivisione. Quel grosso buco che gli squarcia il petto, simile a quello antartico, causato dal costante ribollire dell’acqua calda sotto lo strato di ghiaccio, pare rimarginarsi.
L’autismo appare ai nostri occhi per quello che è: una condizione neurologica, non una malattia invalidante. Ecco che il concetto di normalità si sgretola fino a farci dubitare del suo valore oggettivo. La normalità è solo un fenomeno di convergenza verso la media.
Atypical ci cattura nella sua rete empatica per condurci ad una conclusione: le difficoltà di Sam non sono solo quelle di un neurotipico, ma sono anche le nostre. Tutti, almeno una volta, ci siamo sentiti come “un fiocco di neve nella tempesta dell’Antartide“.
Trovare le strategie per affrontare le nostre sfide, non uniformarsi agli altri solo per dominare una deleteria sete di regolarità, queste le armi vincenti. Così facendo, ci apriremo alle risorse che la vita può offrirci, le quali non solo altro che il riflesso delle nostre potenzialità.
Forse la chiave della serie è racchiusa lì, in quell’iconico ballo silenzioso (dove la musica passa attraverso le cuffie e non si diffonde nella stanza). La condizione di Sam non è triste, perché l’isolamento, la solitudine, la mancanza di esperienze lo sono, non il contrario.
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