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C’Era Una Volta A Hollywood: Tarantino e la bellezza del cinema

Con C’Era Una Volta A Hollywood, Quentin Tarantino mostra di essere un regista eclettico. Pur mantenendo, però, inalterata la sua poetica di base

Romantico, poetico, nostalgico, a tratti anche strappalacrime. Forse nessuno avrebbe mai pensato a Quentin Tarantino come ad un regista in grado di mettere in atto questi suoi lati così umani nel cinema. Eppure lo ha fatto, ci è riuscito, ed ha avuto la forza di rinnovarsi e di mettere a tacere tutte quelle “malelingue” che lo tacciavano di saper fare un solo tipo di cinema. Con C’Era Una Volta A Hollywood, questa convinzione viene completamente sovvertita e seppellita definitivamente.

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Ma non c’è solo questo. Dietro C’Era Una Volta A Hollywood c’è tutto il gusto di voler celebrare tutto ciò che ha costituito l’identità cinematografica del regista, il modo in cui si è formato, a chi e a cosa deve la sua fortuna carrieristica. E, naturalmente, in maniera quasi automatica, questo si trasforma in una sorta di vera e propria “ode” al cinema stesso, come fosse un processo metacinematografico. Mettere il cinema dentro il cinema e farne vedere tutte le sfaccettature, le crepe più dure e i momenti più gioiosi.

Naturalmente, a fare da contorno a queste premesse, c’è uno scenario che Tarantino ama follemente: quello della fine degli anni ’60, proprio quando sta per celebrarsi la “New Hollywood“. Ed è uno scenario in cui il buon Quentin sguazza perfettamente, lui che è praticamente debitore proprio del cinema di un tempo, e che ha permesso anche di revisionarlo e di farlo conoscere agli spettatori dell’ultima ora.

Un cinema “di serie B“, come sempre definito, ma non per questo minore o di bassa lega. Come ha dimostrato più volte lui stesso, alla fine bastano le idee, e non i soldi, per realizzare veri e propri masterpiece del cinema. Ma andiamo con ordine.

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Cinema di serie A e di serie B

C’Era Una Volta A Hollywood prende il via in un ambiente piuttosto conosciuto e sdoganato, ormai. Siamo nella Los Angeles nel 1969. Nell’ambito cinematografico, troviamo il nostro Rick Dalton (un sempre stratosferico Leonardo DiCaprio), attore di successo arrivato grazie a una serie televisiva western degli anni Cinquanta e una serie di film azzeccati, che teme che la sua carriera possa essere arrivata al capolinea. Rick però non si piega alle richieste dei produttori, ovvero di andare a girare spaghetti western in Europa, ritenendo il progetto non alla sua altezza. Invece, Dalton accetterà la parte del villain in una nuova serie TV western.

Al suo fianco, la sua spalla/controfigura designata è Cliff Booth (un convincente Brad Pitt), che è praticamente un vero e proprio “fratello in pectore” per Dalton. Cliff fatica a trovare nuovi lavori, specie dopo le diffuse voci che lo vogliono come killer della sua stessa consorte. I due passano molto tempo insieme nella villa di Dalton situata a Cielo Drive, proprio al fianco di quella da poco presa in affitto dal regista Roman Polanski (un sorprendente Rafał Zawierucha) e da sua moglie, la bellissima attrice Sharon Tate (la solare Margot Robbie).

Sarà proprio un particolare avvenimento legato ad una data fatidica a far convergere le vite (apparentemente parallele) di tutti i protagonisti.

Summa cum laude

Chiariamo subito: non ci troviamo di fronte al solito Tarantino. Chi si aspetta splatter e violenza a fiumi ne resterà deluso. Ma è proprio in questo che C’Era Una Volta A Hollywood trova la sua forza. Il regista del Tennessee, giunto al suo nono film, ha trovato la forza e il coraggio di rinnovarsi, di puntare su sentimenti nostalgici e intimisti. Cosa ne nasce? Ne nasce un vero e proprio tributo ai western e al cinema anni ’70 di cui lui stesso è figlio.

Insomma, è una sorta di vera e propria “summa cum laude” del cinema di Tarantino stesso. Il regista introduce elementi nuovi, come l’impianto metacinematografico e un sentimento di nostalgia per i tempi andati. Poteva, però, Tarantino esimersi dal suo citazionismo irrefrenabile, dal suo humor grottesco e dalla violenza “kitschosa“? No di certo. E quindi ritroviamo riferimenti e tributi palesi a maestri nostrani come Sergio Corbucci, Antonio Margheriti, ma anche al cinema action anni ’70 di Walter Hill (soprattutto nelle scene in auto) e ai grossolani film di serie B (la scena di Dalton con il lanciafiamme è magnifica).

Il montaggio di C’Era Una Volta A Hollywood è tecnicamente notevole, vecchio stile a concatenazione rapida. La regia è come sempre estrosa, ricca di piani sequenza e di inquadrature a cui il nostro ci ha abituati. La fotografia è davvero spettacolare, vivida di colori e di tinte psichedeliche perfette per il periodo. La colonna sonora è in tinta con il periodo che si racconta, nonché di ottimo gusto (Deep Purple, Simon & Garfunkel) e mette in evidenza il periodo di vizi e perversioni che il regista racconta, ancora una volta.

A questo si aggiungono le prestazioni incredibili di Leonardo DiCaprio (che riesce addirittura a balbettare volontariamente) e di un sontuoso Damon Herriman, che ricalca perfettamente la follia di Charles Manson. Insomma, elementi incredibilmente positivi.

Il MacGuffin

Paradossalmente, C’Era Una Volta A Hollywood non vuole indagare sulle stragi “mansoniane“. Anzi, ne capovolge il ruolo e le sfrutta come espediente hitchcockiano, come un vero e proprio MacGuffin per raccontare un cinema perduto, a cui non si ritornerà più. Questa, però, si presenta come un’arma a doppio taglio, in quanto la stessa trama e la stessa sceneggiatura, che finora erano sempre stati punti di forza del regista, risultano deboli.

In molti punti, la scena risulta morta, procede a singhiozzo e si sviluppa molto lentamente. Lo stesso omicidio Tate è sì telefonato, ma provoca nello spettatore un’attesa che, alla lunga, snerva. Quell’attesa che a tutti fa pensare “Sì, ok, ma quando arriva il bello?”. Dunque, chi effettivamente si aspetta l’esplosione classica a cui Tarantino ci ha abituato resterà ben deluso.

Ma sono difetti che si possono limare con una semplice e unica frase: è cinema autoriale. E, per la prima volta, Tarantino dimostra di saper fare anche quello. E sorprende nuovamente tutti.

Antonio Jr. Orrico

Studente al terzo anno di Scienze della Comunicazione, con una passione innata per il giornalismo, per la scrittura, per la lettura e per la musica.

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