Il coronavirus fa ormai parte della nostra quotidianità: routine annullata, rapporti sociali vivi solo grazie ai social, contatto umano azzerato. Sono molti gli aspetti psicologici che la maggior parte degli esseri viventi sul pianeta Terra stanno vivendo. La paura di essere contagiati e di contagiare, l’ansia per il futuro e per le proprie attività, nostalgia per una persona cara di cui si sente la mancanza, rabbia per non aver fatto di più prima e per aver sottovalutato i consigli degli esperti. Per non parlare dello stress di medici e operatori sanitari che oltre a vivere le stesse sensazioni di ognuno di noi, devono anche combattere il nemico in prima linea. Onore a loro.
Ognuno ha trovato, tuttavia, il modo di andare avanti e di crearsi la propria ruotine. Da chi si diletta a cucinare, a chi ne approfitta per fare esercizio fisico a casa; da chi “consuma” serie tv a chi “divora” libri. Insomma, l’uomo è un animale e gli animali, bene o male, si adattano.
Un aspetto forse ancor più inquietante è, però, che il coronavirus condizionerà la nostra vita anche quando sarà ormai solo un ricordo. La nostra generazione ha avuto la fortuna, ed è l’unica a poterlo dire da circa 1500 anni a questa parte, di vivere un periodo così lungo senza guerre sul suolo italico. Ma la pandemia è comunque una guerra, una guerra che unisce tutte le nazioni contro un unico, inesorabile, crudele nemico. L’unica arma a nostra disposizione attualmente è l’isolamento, ma è questa arma che produrrà importanti effetti, interessanti sotto certi punti di vista, sulla vita di ognuno.
Se ipoteticamente da domani il Governo acconsentisse a riaprire attività e a riprendere le attività sociali, sarebbe tutto come prima? Di certo la gioia di rivedere parenti, amici, fidanzati/e avrà la prevalenza, ma quanti se la sentirebbero di andare, ad esempio, in una discoteca? Il terrore per un colpo di tosse, la costante ricerca del famoso metro di distanza, la consapevolezza di poter ricadere nuovamente nella quarantena forzata e di dover di nuovo salutare parenti, amici, fidanzati/e per un periodo non meglio specificato. Vedere l’altro come un possibile vettore di contagio, anche l’amico fraterno o il collega di una vita. Tutto questo farà parte della nostra vita per molto tempo e con un’intensità probabilmente ancora maggiore per paura, come già detto, di ricaderci. Ma forse è anche un po’ colpa nostra: se tutte queste precauzioni le avessimo prese prima, quando ci veniva vivamente consigliato, forse a quest’ora non avremmo dovuto piangere migliaia di morti.
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