Fuga di cervelli, un problema sempre più grave
Attualmente in Italia si sta assistendo al famoso fenomeno della fuga di cervelli nonché a un emigrazione degli italiani all’estero per avere un futuro
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L’Italia è una delle nazioni protagoniste del fenomeno “fuga di cervelli“. Con tale termine infatti, si va ad indicare un emigrazione da parte di coloro che vogliono un futuro nell’ambito lavorato, ma che purtroppo in Italia, ad oggi non sembra essere molto possibile, in quanto si “tappano” le ali ai giovani e alle loro capacità. In questo modo si determina una grande perdita intellettuale. In seguito a questo avvenimento, si solidifica sempre di più l’intenzione da parte dei ricercatori italiani all’estero, di non tornare in Italia. Secondo un recente studio coordinato da Benedetto Torrisi, ricercatore in statistica economica all’università di Catania, su un campione di quasi mille ricercatori espatriati con un’età compresa tra i 25 ed i 40 anni, il 73% risiede fuori dai confini nazionali. La restante percentuale invece tornerebbe solo a determinate condizioni: ricongiunzione della carriera acquisita, maggiori redditi, migliore gestione delle risorse destinate alla ricerca e maggiori rapporti tra università e impresa. Lo stato di benessere sociale e lavorativo raggiunto negli altri paesi è infatti giudicato molto soddisfacente, e la quasi totalità ritiene non meritocratico l’accesso ai finanziamenti per la ricerca in Italia.
Lo studio ha anche riscontrato che tra le motivazioni che spingono a lasciare il nostro paese, rientra soprattutto la consapevolezza di poter inseguire migliori opportunità occupazionali, attratti dal prestigio dell’istituzione ospitante e dall’innovazione delle tematiche di ricerca, e, ancora, incentivati da motivi economici. Più nello specifico, i principali fattori di richiamo risiedono in base allo studio, nell’efficace organizzazione del lavoro, nelle sue strutture, nelle politiche applicate e nelle prospettive di carriera. Un insieme di valutazioni che, in definitiva, finisce per far sfumare del tutto la voglia di rientrare.
L’indagine però non si ferma ai cervelli in fuga. Al primo progetto iniziato nel 2009 (Italian researchers abroad), si aggiunge nel 2010 la visione dell’altra faccia della medaglia con Italian researchers in Italy, ovvero di chi rimane in Italia. Dall’analisi di un campione di 3575 individui tra precari e non, è risultato che la maggiore tendenza a emigrare è legata ai più giovani (due su cinque tra i 25-30enni), e al contempo questa percentuale si riduce con il crescere dell’età. Ciò che porta a questo però, sembra essere l’attaccamento alla famiglia, i rapporti sociali ecc. Quello che invece spinge ad andare via è per l’83% la maggiore valorizzazione delle proprie competenze, seguita dai maggiori redditi, dalle opportunità occupazionali, e perfino dall’eccessiva burocrazia italiana (per il 42%). E naturalmente i dati fanno registrare di riflesso anche la pessima opinione sullo stato delle cose in Italia in fatto di ricerca. Non è un caso se solo uno su sette ritiene di vivere in un ambiente lavorativo «con un’alta percezione del benessere organizzativo»,mentre tra quelli che vivono all’estero la percentuale sale a nove su dieci.
Infine c’è un aspetto che incuriosisce. Nonostante la considerazione quasi del tutto negativa delle proprie condizioni di lavoro, se si chiede oggi a un ricercatore la sua disponibilità a trasferirsi altrove traspare solo una “prudente propensione a emigrare”. Fatto sta che chi si trova all’estero per il momento non pensa di rimpatriare, mentre i ricercatori che decidono di restare, nonostante le forti critiche al paese, lo fanno ancorandosi a un incrollabile ottimismo. [ads2]
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