Fuori uno. Da un bel po’ di tempo, si discute dell’effettiva ripartenza del Partito Democratico, dopo la debacle e la continua discesa nei sondaggi. Tutti i più legati alle strutture progressiste attendevano con ansia il nuovo corso, che era cominciato con la candidatura ufficiale di Marco Minniti a segretario del PD.
Il tutto, però, era stato affrontato in modo brusco, come fosse un pour parler, allentando troppo la presa su una questione a dir poco fondamentale. A testimonianza di ciò, è arrivata una notizia dritta al cuore del PD: Marco Minniti ha ritirato la sua candidatura a segretario.
La cosa che sorprende è la volubilità con cui è stato perpetrato questo gesto. Infatti, sono passati solamente diciotto giorni dal primo annuncio di candidatura da parte dell’ex Ministro dell’Interno.
Il “renziano” ha così spiegato la sua decisione: “Resto convinto in modo irrinunciabile che il congresso ci debba consegnare una leadership forte e legittimata dalle primarie. Ho però constatato che tutto questo con così tanti candidati potrebbe non accadere. Il mio è un gesto d’amore verso il partito.”
Per quanto l’ultima parte delle sue dichiarazioni siano una vera e propria liberazione per la sinistra più progressista, dall’altra esse non spiegano né sono coerenti con il quadro generale che si delinea all’interno del partito. Le ragioni, però, in realtà sono molteplici. E sono tutte inerenti agli effettivi numeri.
Con una competizione così frastagliata, con già molti candidati in campo (tra cui il semi-sconosciuto Dario Corallo, che aspira malamente al ruolo di nuovo Matteo Renzi), il ritiro di Minniti sembra molto semplice da spiegare.
In sostanza, la paura più grande dell’ex ministro dell’Interno è stata quella di non poter raggiungere l’effettiva cifra per diventare segretario. In un partito ai minimi storici, il voto per le primarie sembra destinato a pochissime persone, il che potrebbe far sì che non si raggiunga il quorum per decidere le sorti.
Dunque, la soluzione, la riuscita più probabile, ad oggi, sembra quella che comprende il “nessun segretario“. Arrivare così al congresso ad un anno dalla sconfitta del 4 Marzo, dopo alcune probabili elezioni regionali e poco prima delle europee, sarebbe un disastro. Ma è lo scenario più plausibile.
Minniti ha semplicemente fiutato l’aria di disastro ed ha optato per una ritirata strategica, che assume il significato di non volersi assumere responsabilità. Una logica molto fedele alla politica degli anni ’90, quella dell’opportunismo a seconda di dove va l’elettorato.
Altro motivo determinante per il ritiro è stato l’improvviso mancato appoggio da parte dei suoi fidati colleghi “renziani“. Infatti, si è prima scontrato con Luca Lotti, poi con Teresa Bellanova, arrivando al punto che negli ultimi giorni le operazioni di raccolta firme per la sua candidatura si erano arrestate.
A questo punto, dopo il venir meno dell’unica personalità più forte all’interno del Partito Democratico, la situazione diventa davvero nera. Se fino ad ora le prospettive di rinascita erano, seppur contenute, ancora in vita, dopo questo ritiro non si capisce come si possa andare avanti.
La non candidatura di Minniti incanala la politica progressista italiana verso un unico possibile esito: la sua estinzione. Se ancora non ci sono candidati plausibili, se ancora non ci sono personalità esimie democratiche, però, la colpa è solamente di un membro: Matteo Renzi.
L’ex sindaco di Firenze è riuscito, in pochi anni, a sfaldare tutto ciò che era il maggior meccanismo e la maggiore forza della politica italiana. Come? Spostando un partito di matrice progressista (per quanto contenuta) verso politiche neoliberiste che ne hanno garantito un conservatorismo che, agli elettori colti del centrosinistra, non è minimamente piaciuto.
Inutile dare la colpa a chi voleva trovare un modo per riportare a galla una barca già sprofondata negli abissi da tempo. L’impresa è impossibile. E quest’ultimo atto mette una pietra tombale su quello che fu il progressismo moderato italiano. Una forma di pensiero che non ha mai garantito le sicurezze che avrebbe dovuto, che (soprattutto negli ultimi anni) si è contraddistinta per un conservatorismo che non è minimamente nelle sue corde.
E allora, ben venga la fine del PD. Ben venga la fine dei “renziani”. Ben venga il nuovo corso. Ben venga la non candidatura di Minniti. Per combattere la deriva populista, c’è bisogno di gente che dialoghi con il popolo, che ne capisca le esigenze ed abbia gli attributi. E di attributi, il PD, non ne ha quasi mai avuti.
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