“La finestra sul cortile” (“Rear Window”) è un film del 1954. Alfred Hitchcock è nel suo miglior momento americano e dirige una pellicola che cambia le tecniche narrative del mondo del cinema
Se dovessimo chiedere a un cinefilo, a uno spassionato o allo stesso
Alfred Hitchcock la trama di
La Finestra sul Cortile, basterebbero giusto due righe. Eppure il regista britannico riadatta il soggetto dell’ominomo racconto di
Cornel Woolrich. Facendolo, trasformando
La Finestra sul Cortile in uno dei più grandi classici della storia del cinema e
mescola rivoluzioni narrative e originalità registica:
un’apoteosi della soggettiva. La metafora del cinema
I grandi attori e i grandi registi si sono contraddistinti nel tempo grazie al loro immenso amore per il cinema stesso;
un requisito pressoché fondamentale in qualsiasi professione, a maggior ragione in quelle artistiche. Hitchcock è un grande regista quanto un grande amante della Settima Arte.
La sua tecnica cinematografica delizia e meraviglia lo spettatore in una narrazione metacinematografica. Il riabilitante
Jeff ha gli stessi occhi dello spettatore. Il protagonista è allo stesso tempo pubblico, il pubblico è allo stesso tempo protagonista.
Hitchcock muove la sua scenografia giocando sull’invisibile e sulle luci, in parallelo agli occhi di Jeff:
come uno spettatore, costretto su una sedia a osservare. La Finesta sul Cortile non è un film da vedere, è un film da osservare.
Perché lo zoom è lo strumento che utilizza Jeff, il protagonista, che ne diventa anche “doppio regista”. Una sorta di
vouyerismo alla fine si ritorcerà contro l’immunità fisica di Jeff e quella spirituale del
cinefilo.
Le finestre si trasformano in palcoscenici teatrali, la macchina da presa riesce a narrare semplicemente spostandosi e l’ironia arricchisce i dialoghi costruiti perfettamente, mescolando
thriller con ritmi lenti ma allo stesso tempo colmi d’intrattenimento.