27 Agosto 2020 - 10:19

NBA, molto più di un semplice gioco

Nba, taglio stipendi

NBA, la protesta di ieri è molto più di un semplice boicottaggio. Le stelle del basket stanno facendo la storia

Lo sport, più di una volta, è diventato veicolo di un messaggio derivante da una situazione reale. E’ impossibile dimenticare la celebre premiazione di Città del Messico del 1968, o la protesta dei giocatori di football americano durante l’inno del 2017 o, ancora, quella di Muhammad Ali  del 1967. Anche l’NBA ha più volte mostrato questa attitudine verso le pesanti problematiche di una nazione come gli USA. Ieri, in particolar modo, è andata in scena la più grande manifestazione sui diritti legata allo sport.

Ma andiamo con ordine.

Giovedì 30 luglio la NBA decide di riprendere il suo cammino, dopo essersi fermata definitivamente l’11 marzo a causa del Covid – 19. L’atmosfera non è delle migliori negli States. Sia perchè il virus ha devastato una nazione rivelatasi debole a causa di scelte scellerate, sia per il caso George Floyd che ha fatto riemergere uno dei più grandi problemi del paese (mai realmente sopito): il razzismo.

Nella bolla di Orlando – costruita appositamente per l’occasione – tutte le franchigie mostrano una particolare attenzione verso ciò che è accaduto a Minneapolis. Maglie con la scritta del movimento di protesta nato in quei giorni ( Black live matters), azioni dimostrative durante l’inno e messaggi sulla schiena al posto dei nomi sono solo alcune iniziative prese dalle squadre impegnate.

Tutto ciò per sensibilizzare ancor di più la popolazione e per utilizzare uno degli sport più popolari al mondo come cassa di risonanza verso la vera malattia del genere umano.

I giorni passano e, nonostante i movimenti spontanei nati da est a ovest, le cose sembrano non cambiare per niente.

Anzi.

Il Presidente Trump continua a far finta di nulla – affermando più volte la natura non razzista del statunitensi, malgrado i suoi atteggiamenti favoriscano l’esatto contrario – e la situazione si aggrava con nuove agghiaccianti aggressioni alla popolazione afroamericana da parte della polizia e non.

Il tutto precipita il 24 agosto.

A Kenosha, nel Wisconsin, la polizia spara sette colpi alla schiena – non uccidendo, fortunatamente, ma paralizzandolo a vita – di Jacob Blake, che disarmato si avviava verso la sua auto.

Riprendono le proteste su tutta la nazione e la situazione continua a peggiorare (considerando anche le azioni scellerate di pazzi privati che hanno cominciato a sparare sulla per la strada).

Da qui prende piede quello che è il messaggio in questione.

La NBA, rappresentata maggiormente da giocatori afroamericani, decide quindi di agire. E lo fa con la solita classe, scuotendo l’intero mondo attraverso un’azione forte come un macigno.

Dapprima i Milwaukee Bucks boicottano gara 5 contro gli Orlando Magic (che si accodano alla protesta). Successivamente l’intero movimento decide di mandare un messaggio chiaro e diretto alla nazione.

Qualcosa deve cambiare.

Per farlo la NBA si serve delle sue punte di diamante.

Dopo un’accesa riunione tra giocatori, LeBron James annuncia che i suoi Lakers e i cugini Clippers (guidati da Leonard) faranno di tutto per bloccare l’intera stagione.

L’annuncio è di quelli pesanti. Che non solo mette in discussione l’intero ambito sportivo. Ma cerca di evidenziare quanto le cose negli USA stiano precipitando in un baratro senza fondo.

La protesta delle stelle del basket, oltre ad aver fatto la storia, dimostra due grandi verità.

La democrazia più grande del mondo (?) deve obbligatoriamente prendere una strada differente se vuole rimettersi in piedi quanto prima, o almeno cercare di farlo.

In secondo luogo che lo sport, quello sano, può essere un grande mezzo per far comprendere quali siano i grandi problemi dei nostri giorni. E quanto ci sia necessità di affrontarli e debellarli il prima possibile.