Immagine dalla pagina Facebook di Netflix
Roma arriva su Netflix dopo aver vinto, a furor di popolo, il Leone D’Oro al Festival del cinema di Venezia. Il titolo non deve trarre in inganno: non richiama la nostra Capitale, bensì il quartiere di Città del Messico dove il regista affonda le proprie radici.
Il capolavoro di Alfonso Cuarón si apre con l’acqua. Ricca di schiuma, ricade sulle mattonelle e ne scrosta le impurità. L’elemento naturale ricorre spesso, come avesse il magico potere di lavare le coscienze, temprare lo spirito e depurarlo dal dolore.
Al centro degli eventi, una famiglia medio-borghese, minata nelle sue fondamenta. Una madre accudisce i suoi quattro figli insieme ad una tata di speciale umanità e con alle spalle l‘ombra dell’assenza di suo marito. L’acqua continua a gocciolare, dai panni stesi, dai tetti del quartiere; quando diventa grandine, sembra presagire le pallottole.
La prima parte ci trasporta nelle atmosfere del Messico degli anni ’70. Un velo di calma apparente avvolge ogni cosa, prima di sfaldarsi. Un terremoto ed un incendio, improvvisi, iniziano a far dissolvere la stasi che, nella seconda parte, si converte in lotta sociale. Il caos entra anche nei sogni dei bambini (“Quando ero grande ero un pilota di guerra“).
La pellicola, autobiografica, esalta la forza delle donne e la loro inesauribile capacità di adattarsi ai cambiamenti. Quella di Cuarón è un’opera quasi poetica sull’amore, sulla sua straziante mancanza, e sulla responsabilità che glorifica chi sa affrontarla.
Le due protagoniste sono la domestica Cleo e Donna Sofia. Entrambe devono fare i conti con l’abbandono e la solitudine, prima di trovare la propria identità all’interno di una società patriarcale. Sono donne volitive ma dignitose, pronte a combattere contro il nemico peggiore: non la prepotenza dell’uomo, bensì la sua drammatica indifferenza.
Gli attori non sono professionisti e leggono la sceneggiatura nel momento esatto in cui dovranno recitarla. Questa strategia mira a cogliere frammenti di pura spontaneità, accresciuta dalla scelta di far suonare ogni battuta nella propria lingua originale.
I sottotitoli in italiano avrebbero sacrificato la fluidità di un’opera quotidiana eppure straordinaria, declinata in scene di bellezza estatica e simmetrica geometria.
Roma accede di diritto in una posizione privilegiata alla corsa agli Oscar 2019, ambendo non solo al premio per il migliore film straniero ma, probabilmente, a molto di più.
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