The Romanoffs ci racconta in otto puntate, con un fare antologico (ogni puntata ha una sua storia, ha un suo format,ha dei suoi personaggi e un Paese diversi) di alcuni protagonisti che credono di discendere dalla grande dinastia russa assassinata dai bolscevichi. Personaggi tutti, con una loro storia, con un loro racconto, come dimostrano le prime due puntate programmate da oggi su Amazon Prime. Le altre sei invece, si rincorreranno una alla volta per ogni settimana fino alla fine di novembre.
È con “Violet Hour” e “The Royal We”, primi due episodi degli otto di The Romanoffs, che Matthew Weiner torna dopo alcuni anni lontano dalla televisione. Questa volta su una delle più importanti piattaforme, altra concorrente bulimica schierata dall’altra parte della strada dove Netflix già si sta godendo la sua vittoria (ma davvero riuscirà a farla franca?).
Weiner è già stato creatore di una delle serie TV più grandi d’America, ovvero “Mad Men”. Altra sua serie di rilievo è la mastodontica “The Sopranos”. Entrambe (e non solo queste) hanno fatto la storia della televisione americana e mondiale.
La prima puntata, “Violet Hour”, è interamente girata a Parigi. Una coppia di fidanzati, lei proprietaria di un hotel, lui suo partner sia nel lavoro che nella vita privata, vogliono impossessarsi della dimora lussuosa della zia di lui, di stirpe russa, quasi diventata sepolcro.
È lei la “Romanoff” del primo capitolo, che in casa nasconde un uovo Fabergé della storica gioielleria russa fondata nel 1842 da Gustav Fabergé quando la Russia e la Prussia erano unite e formavano una sottospecie di “Europa”. Tutto si complicherà quando, a badare alla zia ormai anziana, un’agenzia metterà a lavorare come cameriera.
Una “serva” moderna che sembra uscita da un film di Billy Wilder, una ragazza di origini africane con il sogno di diventare infermiera.
Sarebbe inutile essere frettolosi e raccontare un finale che ha lo stesso colore violaceo della Russia al tramonto e del titolo che la contiene. Di fatto non è il nostro mestiere! Ma è fin da subito scontato osservare come Matthew Wiener si diverta con il genere della commedia e del melodramma cadenzato. Con un tappeto musicale principesco, sa toccare temi e profondità passeggiandoci e ballandoci sopra come su un tema di Tchaikovsky. Non risparmia, perciò, una certa depressione velata intrinseca nei personaggi, che non finisce per apparire mai solo malinconia.
Quella stessa melodia in sintonia con il melodramma che proprio sul finale non si contiene e divampa. Perché, oltre ad avere un lieto fine sempre sulle punte, Matthew Weiner giunge pur sempre da un finale e da un capolavoro come quello dell’era che racchiude tutti i suoi personaggi in Mad Men.
Fa sprofondare l’impianto sentimentale dentro lunghi addii, come quello della zia che si cinge di notte spegnendo una candela con il suo fiato, ormai oltrepassata e stanca, camminando in lunghi corridoi, presenze fantasmagoriche della sue reggia.
Non è molto lontano quel Don Draper di Jon Hamm che sorride alla fine dell’ultimo capitolo di Mad Men, quando sembra aver finalmente trovato la sua strada e la sua libertà dal dolore infantile, illusoriamente. Non è mai lontano, The Romanoffs, da quel finale “truccato”, patinato proprio come una pubblicità e qui mentre giunge su Amazon Prime sembra più sogghignante e disilluso di prima.
E nella prima come nella seconda puntata lo stesso creatore legittima quella che è la sua dialettica, quello che forse non ci era giunto fin da subito nelle ultime puntate di Mad Men, anche se con troppo ritardo. Qual è il suo modo di vedere una civiltà? Quale antropologia e consistenza hanno i rapporti che lui stesso scrive? La quantità esasperata di sigarette in bocca agli attori, le tanto celebrate porte che si chiudono e si aprono, le sue inquadrature eleganti, il suo portamento aristocratico, i dialoghi evanescenti e il suo sguardo sempre nobile e pudico nel mostrare l’amore senza stringerlo violentemente.
Ecco. Forse proprio in The Romanoffs troveremo le risposte giuste anche per rewatchare e schierarci in maniera differente nell’universo di Mad Men.
“The Royal We” è la storia di una coppia che lavora in America, anche qui l’uomo è dipendente di sua moglie. Si troveranno divisi. Lui dopo aver conosciuto una donna elettrizzante, misteriosa ed erotica (la donna weineriana per eccellenza, che abbiamo imparato a conoscere in tutti questi anni) in una giuria per colpevolizzare o assolvere un uomo che ha massacrato il cervello di una donna. Lei, invece, deciderà di partire da sola per una crociera dedicata agli ultimi superstiti della nobile famiglia dei Romanoffs.
È qui che, a differenza del primo, un po’ sublimato da un certo tipo di racconto dolce e piacevolmente stupido (pur se in filigrana e non per davvero), Weiner passa all’attacco, gioca con i generi, si da un po’ di tempo senza lasciarci un finale monocorde e poco rischioso, che è pura tragicommedia, quel finale che amerebbe così tanto quel tanto desiderato e odiato Woody Allen per ironia e tono mordace!
Una tragedia che ci colpisce nel cervelletto con una risata! E allora quel Matthew Weiner non è solo affiancato di poco, ma ci risulta vicinissimo all’impianto formale e contenutistico di Mad Men. Giocando con i suoi rapporti stranianti ci dice qualcosa in più! Perché si, le storie tra il primo e il secondo ci sembrano totalmente diverse, ma rivedendole insieme e una dopo l’altra ci serbano lo stesso messaggio. Più di un messaggio pubblicitario con le didascalie e una morale, molto più di questo.
Ci racconta non solo i rapporti e la loro eclatante follia; non solo l’ipocrisia degli affetti. O perché no, la negoziazione tutta familiare per giungere alle proprie vittorie individuali. Ma ci dice molto della nostra tanto chiacchierata civiltà. Weiner lo dimostra nella prima puntata dove la zia intesta la sua reggia ad una africana di origini e di religione diverse per mantenere vivo, seppur con un oltraggio generazionale ed antropologico, nelle mani di una giovane il proprio regno segnato dal sangue, dall’incesto e dalla malvagità.
Ed è poi la stessa zia ad onorare quel legame tra lei e suo nipote per arricchire e per non essere dimenticata nel baratro della sua morte. Perché tutti sono Romanoffs e vogliono mantenere in vita quel titolo.
Nel secondo capitolo tutto si ripercuote, tutto è chiaro fin da subito, nella bellezza delle scenografie del teatro della nave da crociera. Incanto, sublime, tutto viene imitato in nome della propria dinastia, in virtù del proprio Nome, scolpito nelle dimenticanze e negli attestati di parentela di chi ormai è vecchio o di chi è figlio illegittimo di un rapporto di sangue.
The Romanoffs non è solo una fiaba sull’amore, non è solo un’illusione pubblicitaria piatta e surrogata che in negativo ci parla del sogno americano infranto e di un mondo altro, ma ci dice tanto su un universo che non fa ancora i conti con il proprio patrimonio multiculturale.
In maniera opposta, non riesce minimamente a soffermarsi sulla sua Paternità e a riservarsi la sua intatta e immutata identità. Tutti in “The Romanoffs” sono fantasmi di una civiltà, e nel mondo dolente di Weiner non è mai stata una novità.
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