La scoperta del gene è stata ottenuta tramite numerosi studi sui tardigradi, specie animali che avrebbero acquisito questo “super-potere” casualmente nel corso dell’evoluzione
[ads1] Alcuni ricercatori dell’Università di Tokyo avrebbero scoperto ed isolato un
gene in grado di garantire resistenza e protezione al
Dna. La notizia,
che costituisce una vera e propria rivoluzione per l’intera comunità scientifica, è sostenuta dagli studi condotti da alcuni biologi dell’ateneo giapponese i cui risultati sono stati resi noti nella giornata di ieri attraverso una pubblicazione su
“Nature Communications”, una rivista tematica che si occupa di ricerche e nuove scoperte relative al mondo scientifico. L’intuizione è il frutto di diversi anni di analisi e supposizioni che hanno il loro fondamento nello studio dei tardigradi,
microscopici animali acquatici dall’aspetto quasi alieno che grazie alla loro natura riescono a sopravvivere in condizioni estreme quali mancanza di nutrienti, temperature molto basse, radiazioni e ad altri stress.
Oltre a queste caratteristiche già di per sé strabilianti, i tardigradi, che rappresentano una sorta di unicum nel mondo vivente, sarebbero anche i custodi di un prezioso gene in grado di fungere
da scudo nei confronti del Dna, schermandolo e proteggendolo da eventuali danni. Partendo dall’idea iniziale i ricercatori nipponici hanno concentrato i loro studi su una particolare specie di tardigrado definita
Ramazzottius varieornatus, nota per essere estremamente tollerante alle condizioni di stress. Il modus operandi degli studiosi ha previsto dapprima una mappatura del genoma animale,
una procedura ampiamente utilizzata in biologia che permette di ottenere una “fotografia” del corredo genomico dell’essere vivente studiato, dal quale è stato poi identificato un gene specifico codificante per una proteina
(chiamata Dsup) in grado di difendere il Dna dai danni causati dalla disidratazione e dalle radiazioni. Questo gene, se inserito nelle cellule umane coltivate in laboratorio,
è riuscito addirittura a ridurre del 40% i danni generati nel Dna dai raggi X. Se questo comportamento venisse riprodotto anche in vivo potrebbe rappresentare senza dubbio una svolta per il mondo medico, in quanto l’effetto protettivo potrebbe esser sfruttato per aiutare i malati di tumore sottoposti a radioterapia, cosi’ come i lavoratori a rischio nelle centrali nucleari. [ads2]