Protagonista dell’ultimo film di Reitman è Marlo – interpretata da un’eccellente Charlize Theron -, una madre di tre bambini presentata insieme alle gioie e agli ostacoli della maternità. A stravolgere la sua vita arriva Tully, una tata notturna a cui spetterà il compito di prendersi cura dei tre figli e della loro mamma. Nonostante un’iniziale fatica nell’abituarsi ai modi stravaganti della nuova baby sitter, Marlo riuscirà col tempo a stringere con lei una sincera amicizia.
Come il cinema di Richard Linklater, come i suoi personaggi, come la sua trilogia e la sua ultima opera-progetto-saggio di “Boyhood”, così anche il cinema di Reitman “cresce” di tassello in tassello. Sembra di sentirli di pancia, embrionici e liquidi, lui e la sua blogger preferita Diablo Cody, diventata fin dal primo momento sceneggiatrice dei suoi film a partire da Juno.
I protagonisti di Linklater e di Reitman sono collocati in un tempo purgatoriale che permette una spinta e un’evoluzione solo con il passare degli anni e con l’incedere della maturità dei propri autori. Film spazio temporali, cresciuti e pensati come di passaggio da un’età ad un’altra, sistemati ad incastro nell’intimismo di chi crea l’idea e la storia.
Reitman un po’ della mumblecore, un po’ meno dogmatico dei suoi colleghi che hanno fatto del loro cinema e più specificatamente della televisione grande e piccola una new wave di stile e di tematiche a partire tra “Transparent”, continuando per “Room 104” e concludendo con piccoli film home video e “I love Dick”, non solo aggiunge qualcosa alla sua dialettica dimostrandosi un autore forte e come pochi, ma trova per la prima volta la coscienza delle sue immagini, una profondità cromatica fortissima finalmente permeabile e fuori dal radical chic imputabile negli ultimi anni a un certo tipo di indie americano.
Tully, ipotetico punto di congiunzione e di approdo di una trilogia di (s)formazione, film sornione, sonnolento, sognante un po’ come i tragitti nell’auto-mondo delle opere di Kiarostami, è prima di tutto un film che passa per la trasformazione del corpo. Come i suoi personaggi maschili rigidi e bambinoni circuiti dalla propria sessualità latitante e sfuggente, così anche le donne e Charlize, ingrassata di 25 chili, è protagonista di un deterioramento psichico che passa prima di tutto per i contorni e per il corpo (il)limitato.
Si economizza tutto nel cinema di Reitman, dialoghi, retorica, narrazione, ma mai la presenza fisica anche dei luoghi radicalizzati e nauseanti nella quotidianità dei personaggi. Gli oggetti, anche essi corpo fisico, straziato, manomesso, caratterizzati dai colori netti della fotografia fino a sembrare gommosi. È il corpo ciò di cui parla il “Tully” di Reitman, chiarendolo nel suo finale dove la “femminilità” della protagonista resta tumefatta dopo un incidente stradale. Il corpo snodabile oltre la giovinezza, in continuo scambio tra smagliature e vibrazioni dolorose. Come in “Up in the air“, dove il corpo di un Clooney disilluso è strumento di viaggio permanente e di azione, di mortalità eclettica, qui diventa corpo femminile, sistema centrifugo materno, consapevole al di fuori e dentro, permeato da una incredibile e nuova tranquillità nel finale impossibile da intravedere nelle opere precedenti del suo autore.
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