Siamo finalmente giunti a venerdì 4 febbraio 2022. È un gran giorno per Sanremo perché vedremo le esibizioni delle Cover. Ogni artista ha scelto un pezzo del passato. Per che canzone avrà optato Fabrizio Moro? Il tenebroso cantante ha scelto di reinterpretare “Uomini soli, il popolarissimo brano con cui i Pooh si aggiudicarono la vittoria a Sanremo nel 1990.
Il brano è di un’autenticità devastante e bacia in profondità la coscienza di “uomini soli”, perduti e spaesati, assaliti continuamente da oceani di pensieri, tra uno sguardo riservato ad una cameriera e la paura nauseabonda dell’intimità. La barba incolta riveste la natura mascolina e dolcissima degli uomini che hanno paura del calore o del successo. Non si sentono pronti a denudarsi, non si sentono pronti a farsi amare, a fare l’amore con degli occhi dolci e caldi. Non si sentono pronti al successo perché essere famosi significa vestire dei panni uniformi e standardizzati che non riescono a cullare le più disparate sfumature della nostra pelle che arrossisce, che si fa rosa in fiore:
“Li incontri dove la gente viaggia, e va a telefonare, /col dopobarba che sa di pioggia, e la ventiquattro ore,
perduti nel corriere della sera, /nel va e vieni di una cameriera, ma perché ogni giorno viene sera?
A volte un uomo è da solo perché ha intesta strani tarli, /perché ha paura del sesso o per la smania di successo”.
Gli uomini soli invocano Dio, nel dolore delle loro strade buie e fredde. Gli uomini, di notte, chiedono a Dio di cambiare l’esistenza, di renderla vivibile prima che ci uccida, prima che il senso perpetuo del disadattamento ci distrugga il cuore. Possiamo essere amati per quelli che siamo veramente? Possiamo fare amare la nostra vera sostanza senza violentarla continuamente con paure, nevrosi, ossessioni e gelosie? Da cosa derivano, infatti, le patologie, se non dall’incapacità di gestire, nel buio del silenzio, il nostro Io? Es, Io e Super Io si fondono e lottano tra di loro, in maniera pedissequa e costante:
“Dio delle città /e dell’immensità,
se è vero che ci sei/ e hai viaggiato più di noi,
vediamo se si può imparare questa vita, /e magari un po’ cambiarla, /prima che ci cambi lei.
Vediamo se si può, / farci amare come siamo,
senza violentarci più, /con nevrosi e gelosie”.
Gli uomini che assaggiano la solitudine non si lasciano afferrare dalle compagne che vogliono amarli. Per entrare nel cordoglio putrefatto di uomo ci vuole tatto, ci vuole dolcezza. Bisogna essere abili, pronte a cambiare pelle per rinnovarsi, pur rimanendo fedeli alla propria ed intima natura automa di donne:
“Dio delle città/ e dell’immensità,
se è vero che ci sei/ e hai viaggiato più di noi,
vediamo se si può/ imparare queste donne
e cambiare un po’ per loro, /e cambiare un po’ per noi”.
Questa scelta veste perfettamente le sfumature di uomo fiero, autentico, un artista che, con la sua voce graffiante e pura, ha intonato per tutta la sua carriera la verità. E non ha paura di essere un “uomo solo” Moro perché lui piange, si commuove, sbaglia i passi e li trasforma in testi e musica. Dice di non credere e poi si ritrova a credere e ad incantare sé stesso ed il pubblico. Moro è un artista che non vive per gli altri, non vive per la moda conformista o per gli applausi perbenisti. Moro si affida ad unica e sola voce, la più potente: l’amore per la vita, che va oltre le più disparate e comuni metriche personali e sociali. Non siamo soli, nessuno di noi lo è. Basta solo aprire gli occhi e e cambiare le maree altisonanti dei nostri sguardi.
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