Saltatempo, di Stefano Benni
Eccolo, Lupetto, che proprio nel corso delle prime pagine si tramuterà in Saltatempo!
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Scarpagna, brutto che tutte le volte che sorridevo ad una principessa, quella cercava rifugio presso il drago, verso le scuole elementari Bisacconi (un cubo giallo vomito dentro un giardino di erbacce barbare).
Siamo nel pieno degli anni ’50. E mentre il (tra poco) Saltatempo si esalta mangiando un grappolo di zibibbo (l’esplosione che avviene quando il dente lo ferisce è come uno sborramento di gusto (…) e tu tossisci e godi e tossisci e godi e mentre tossisci mandi giù un altro chicco per godere di più) e si estenua addentando il paneterno (pane a tal punto duro che lo potevamo mangiare solo io, il cane Fox che era un bracco grande come un cavallo, e la strega Berega dentidighisa), si imbatte nel dio.
Avete presente l’immagine di Dio che il catechista solerte vi ha inculcato tra uno sbadiglio e l’altro? Ebbene, dimenticatela: il dio di Stefano Benni è
alto come una nuvola, con una barba immensa color letamaio, scortata da mosche, tutto vestito di strati e stracci. (…) Ha un bastone di pero e un cane vecchio, ma vecchio che ha annusato chissà quante pisce di tirannosauro.
Ma se è opportuno scordarsi dell’effige del Padreterno, lo è ancora di più estirpare dalla mente la posa ieratica e solenne in cui lo stesso abitualmente si affaccia sul nostro immaginario. Avete resettato? Bene, solo così potete minimamente sopportare il dio di Saltatempo che si tira giù i tre o quattro tipi di braghe e mutande e comincia a farla, ma farla davvero. Ed è alla fine del trionfo di merda tiepida che a contatto col suolo sprigiona una nube di vapore immensa e odorosa che il dio, alzando al cielo un dito sozzo e magnifico, fa dono al ragazzo (non senza aver prima chiesto in cambio un pezzo di paneterno) dell’orologio dentro che misura un tempo che non va dritto, ma avanti e indietro, fa curve e tornanti, si arrotola, inventa, rimette in scena.
Dopo quest’incontro, Lupetto lascia definitivamente il posto a Saltatempo. E lo vediamo vivere, il nostro eroe eponimo, immerso nel suo tempo, nel paese che pian piano trasforma le stipate cavedagne in claustrofobiche autostrade, che contrappone ai valori semplici e genuini di suo padre, un falegname comunista zoppo di tagliola, il disvalore predatorio e affaristico del sindaco Fefelli.
Guardiamo con simpatia Saltatempo che si arrabatta tra i primi riflussi ormonali, tra le avvisaglie di un ’68 che gli farà capire, in maniera quasi casuale ma non per questo meno convinta, da che parte stare; la stessa parte, cioè, di suo padre, di suo zio Nevio, dei tanti amici incontrati nel suo percorso formativo che si opporranno, più o meno direttamente, alla cementificazione della valle, al dilagare del capitalismo amorale, all’affarismo cialtrone di un’Italia che si condannerà alla perdizione.
Saltatempo però, con l’ironia e la leggerezza che l’ottimo Benni ha insufflato nell’anima del suo protagonista, sarà anche capace, non appena si troverà al cospetto di un ticchettio di una goccia d’acqua o di qualsiasi altro elemento in grado di dare l’idea (fisica) del tempo che passa, di vedere nel futuro, di capire che quello studente che inneggia alla rivoluzione diventerà ben presto un servo sciocco del sistema; così come che quel tratto di valle in cui amava pescare da piccino sarà asfaltato per dare sfogo alla “bulimia da cubatura” della nuova classe politica.
Ed è proprio in uno di questi momenti divinatori, mentre un orologio da quiz segna i secondi che mancano per rispondere, che il nostro Saltatempo ha l’ennesima visione,
come l’esplosione di un altissimo fungo atomico di cretineria, e le scorie ricadevano su ogni punto del nostro paese (…), e l’effetto era un rincoglionimento totale, cosmico, indescrivibile. Nessuno aveva ancora capito che quell’elettrodomestico lì era il balcone dei Beniti futuri.
Saltatempo lo sa, lo vede grazie all’orologio dentro, e prova un sentimento di paura, proprio mentre uno degli strampalati personaggi della sua combriccola rifletterà sul significato delle marche, delle firme: l’hambuger?
20 lire di pane, 180 di polpetta, 1800 lire di nome americano.
Un romanzo leggero e profondo, ironico e di denuncia, di formazione e di rottura, il Saltatempo di Stefano Benni. Un’ulteriore voce della composita sinfonia dello scrittore, uno degli ultimi, quest’ultimo, artigiani provetti della parola.
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