4 Maggio 2020 - 13:53

Psycho, Van Sant/Hitchcock: il remake è davvero così brutto?

Psycho

Gus Van Sant, nel 1998, venne accolto come un vero e proprio profanatore di Psycho. Ma davvero il suo remake “shot-for-shot” è così sacrilego?

Premessa: questa potrebbe essere un’opinione molto “unpopular“. Anche perché si sta parlando di uno degli “intoccabili“, uno di quei film di cui sarebbe davvero sacrilego fare una critica, perché appartiene alla storia del cinema ed è lì, fisso e immobile. Di chi stiamo parlando? Del Maestro Alfred Hitchcock e di uno dei suoi capolavori intramontabili, quello Psycho del 1960 che ormai è chiodo fisso della cultura cinematografica. Il buon Gus Van Sant decise di girare un remake “shot-for-shot” nel 1998, prendendosi i sonori “fischi” di pubblico e critica. Ma davvero si tratta di un’operazione così mal riuscita?

Innanzitutto, vi è da fare un piccolo assunto. L’operazione è davvero di quelle particolari e difficili, dato che si tratta del primo rifacimento “fotogramma per fotogramma” di un capolavoro della storia del cinema. Dunque il regista partì già svantaggiato all’epoca, ma nonostante tutto, riuscita o meno, l’operazione si presenta come davvero interessante e molto attuale da analizzare. Questo perché alla base vi è una critica di fondo al sistema cinematografico hollywoodiano che si potrebbe dire lungimirante. Van Sant, di fatto, ricicla un prodotto che l’industria cinematografica vuole sfruttare in modo ciclico.

Così facendo, il remake di Psycho assume una valenza molto importante: quella della spersonalizzazione del cinema. Se si pensa alla valanga di remake e reboot che stanno permeando il cinema attuale, si potrebbe tranquillamente affermare che Van Sant sia in largo anticipo. L’intuizione giusta, però, del regista di Elephant sta nel porsi giusto a metà tra idolatria e cinefilia, regalando un prodotto che faccia parlare di sé, ma non di certo per le sue caratteristiche cinematografiche.

L’estetica avantpop

Lo Psycho di Gus Van Sant è da analizzare nei termini di un’opera avantpop. Infatti, nel suo film il regista ha deciso di includere vari piccoli particolari di sua spontanea volontà che ne forniscono una lettura molto più stratificata di ciò che sembri superficialmente. Oltre ad avere una natura molto più esplicita del film di Hitchcock, adattandosi così all’epoca in cui è stato girato, nel film vi è addirittura la volontà di fare un vero e proprio collage di immagini. Insomma, è un po’ come se Matisse avesse deciso di sua spontanea volontà di copiare la Gioconda di Leonardo da Vinci, modernizzandola ma mantenendo intatta la sostanza. Questo procedimento si nota anche negli errori.

Durante la lavorazione di Psycho, Gus Van Sant portava con sé il film originale del 1960, per ripassarsi la lezione. Quando notava un errore (come una porta aperta senza chiave), il regista decideva di riproporre il medesimo errore nel suo film. A questo punto, l’opera stessa di Hitchcock assume i paradigmi del “feticcio“, di un oggetto da cui poter trarre una sorta di culto, un qualcosa da “vendere” a tutti. E nell’epoca della serialità televisiva, in un momento in cui il cinema riesce a “campare” e tirare avanti soprattutto per i franchise che riescono a vendere al botteghino, è un film importantissimo.

L’obiettivo, infatti, è quello di smuovere le coscienze più ardite e far capire che fare cinema non si limita alla sola copia. Ci vogliono idee alla base. L’obiettivo è far comprendere che la società odierna è talmente alienata e ossessiva nel voler riprodurre, copiare i comportamenti di qualcun altro o qualcos’altro da permettersi addirittura di profanare. E, in qualche modo, così facendo, Van Sant anticipa anche i temi del suo cinema degli anni 2000. Lo stesso che con Gerry, Elephant, Last Days e Paranoid Park parla di morte “cerebrale“, oltre che fisica. E che è stato anticipato, in qualche modo, proprio dal remake del film di Hitchcock.