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George A. Romero, nato a New York il 4 febbraio 1940, fin da piccolo si dedicò ad esperimenti con la 8 mm. Diplomatosi in pittura e scultura presso il Carnegie-Mellon Institut, dopo una certa esperienza televisiva, fondò una società di produzione e distribuzione, The Latent Image.
Pur non essendo stato l’inventore dei morti viventi, immaginario ereditato dal cinema degli anni ’30 di White Zombie con Bela Lugosi, il debito delle future generazioni rispetto alla filmografia di Romero è immane.
Gli zombie, per loro stessa natura, vengono considerati come mostri di serie B rispetto ai vampiri, fantasmi, licantropi ed altri mostri più cruenti, veloci e temibili: i loro corpi decomposti sono sgraziati, quasi comici, e privi di intelligenza, atti a soddisfare solo la loro brama cannibale e a diffondere il contagio.
Con una saga di 6 film (La notte dei morti viventi, Zombi, Il giorno degli zombi, La terra dei morti viventi, Le cronache dei morti viventi, L’isola dei sopravvissuti), George A. Romero ha dedicato gran parte della sua vita agli zombie, riabilitandone l’immagine come protagonisti di una rivoluzione culturale.
In molti all’uscita del film, visto il contesto storico di riferimento, videro nei suoi zombie i reduci del Vietnam, sopravvissuti alla guerra ma morti dentro: un esercito di disperati, disagiati e reietti, in un’America che li aveva mandati al macello ed ora non sapeva più accoglierli. Allora quell’informe massa, dalle vaghe sembianze umane, non ispirava più orrore, ma empatia.
Ottenne presto la fama di cinema radicale, sia dal punto di vista scenico che sociale, adagiando Romero nell’Olimpo degli autori impegnati.
“Solo dopo La notte dei morti viventi, capii come quella degli zombie potesse essere una metafora potente, e importante. Se non li si considera mostri, ma una rappresentazione di quel che noi uomini siamo diventati, ecco allora che il genere dei morti viventi acquista un’altra dimensione”.
Il secondo film della trilogia, Zombi (1978), fu letto come una pellicola frutto del clima sociale e psicologico conseguente allo scempio della guerra del Vietnam. Romero completò la sua trilogia nel 1985 con il meno acclamato ma più cupo Il giorno degli zombi, quale disamina del conflitto tra scienza e tecnologia bellica.
“Ho sempre simpatizzato per gli zombie, hanno un che di rivoluzionario. Rappresentano il popolo solitamente senza idee autonome che a un certo punto, stanco dei soprusi, si ribella. Eravamo noi nel ’68. E ora siamo morti, no? I nostri ideali sono morti, io sono uno zombie”.
I suoi scenari apocalittici hanno rappresentato, inizialmente in maniera inconsapevole, il riflesso della società postmoderna, all’alba della crisi del capitalismo globalizzato, dell’invadenza della pubblicità e della televisione, della sovrainformazione che diventa disinformazione.
“I miei zombi non prenderanno mai il sopravvento. Ho bisogno degli umani, anche se li disprezzo e li considero l’origine del problema”.
Come il maestro della suspense, Alfred Hitchcock, era un regista meticoloso nella costruzione delle scene e nel montaggio, non disdegnando di comparire fugacemente sullo schermo, anche in film diretti da altri, come ne Il silenzio degli innocenti (1991) di Jonathan Demme.
E infatti non si è fatta attendere la caustica affermazione di Romero sulla serie The Walking Dead, liquidata come mera soap opera, incapace di eguagliare il terrore puro di un cinema meno tecnologico ma sicuramente più avanguardistico e spettacolare.
Negli ultimi anni era divenuto un testimonial di diversi videogiochi, sia come personaggio che come regista dei loro spot promozionali.
Ma un anno fa, mentre ascoltava la colonna sonora di Un uomo tranquillo, “uno dei suoi film preferiti”, Romero ha lasciato un grande vuoto, pur lasciando serenamente questo mondo di zombie.
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