10 Dicembre 2018 - 12:42

Alla scoperta delle miniere di Ittiolo dei Picentini

ittiolo

Da Giffoni Valle Piana oggi sveliamo un’altra meraviglia dei Monti Picentini che, oltre ai boschi autunnali, ci portano nelle grotte in cui si nasconde un unguento segreto: l’ittiolo

Dai pesci fossili di 200 milioni di anni fa all’unguento di Ittiolo celato nei Monti Picentini: la natura delle cose ama nascondersi.

Quando nelle nostre giornate di cammini infiniti e riflessioni audaci osserviamo tutt’intorno ciò che ci accompagna, vediamo che la natura si presenta a noi con una bellezza spesso eccentrica e solenne. Eppure, nonostante la forza con cui sempre si esprime, c’è in lei un “certo pudore” nel voler nascondere quelle forme che mimetizzano grandi segreti.

La natura non ci svela solo bellezza di cui è fatta, ma lascia scoprire in essa l’utilità profonda di ogni sua componente e l’ordine infallibile delle parti nel tutto. Ogni suo elemento appare, dopo la scoperta, un piccolo capolavoro.

Così ogni dettaglio sul quale sostiamo durante le nostre esplorazioni non si lascia solo guardare, ma ha in sé un potere in grado di emozionarci, di farci riflettere, di curarci. Una cura per lo spirito di sicuro, ma anche per il corpo.

Dettagli, che in una semplice passeggiata sui Picentini si sarebbero ritratti allo sguardo, oggi si sono rivelati a noi con tutta la forza della storia, del mondo e degli uomini: l’unguento che abbiamo scoperto in questa nuova giornata è un piccolo tesoro di rara bellezza naturalistica e di grande interesse storico e antropologico.

Partiamo col grande gruppo dal paese di Giffoni Valle Piana, alle falde del monte Licinici, terra della nocciola tonda e del Festival del cinema, che tra il suo patrimonio naturalistico offre un prezioso Orto botanico, l’oasi WWF del monte Accellica e l’affascinante grotta dello Scalandrone.

La nostra mission del giorno: visitare le miniere di ittiolo. La nostra vision: farlo godendo come sempre dei segni della stagione in cui siamo, andando lentamente e meditando poi su ciò che abbiamo visto.

A 12 km circa da Giffoni imbocchiamo il sentiero che ci sembra agevole (tutto si può fare con la pancia piena), a quota 792, che ci porta ad un ponticello, allo scavalcamento di un corso d’acqua chiamato Acqua delle Radiche, infine agli improvvisi ruderi di un’antica fabbrica dai muri crollati e di una quasi intatta torre-fornace.

Sono i ruderi del Casone, raro monumento di archeologia industriale, che dall’inizio del ‘900 sino agli anni ‘50 hanno rappresentato lo “scenario di vita quotidiana” della gente proveniente dalle località di Giffoni ( in maggioranza dalle vicine frazioni di Curti e Curticelle) la quale reperiva la materia prima dalle grotte che noi visiteremo, per poi portarla in questo opificio industriale e, attraverso la sua lavorazione in forni ad altissime temperature (fino a 250 gradi), realizzare l’unguento.

Un unguento che a quel tempo veniva utilizzato soprattutto durante la guerra come antisettico e antiparassitario per curare le ferite dei soldati.

L’unguento miracoloso, adoperato sotto forma di pomata per combattere le infezioni e per proteggere ulcere, piaghe e altre lesioni cutanee è quello che le nostre nonne ricordano bene: l’ittiolo.

L’ittiolo ricavato, ottenuto in questi forni per distillazione, era un liquido denso, bruno, nerastro, di odore penetrante e sgradevole che, mescolato con altre sostanze acide, risultava essere una soluzione chimica migliore di quello che veniva già estratto in alcune parti del nord Italia, della Svizzera e della Francia meridionale.

Dai lambicchi fuoriusciva il primo olio che veniva poi raccolto in apposite vasche, mentre i gas dell’olio si distillavano uscendo dalla parte superiore.

In questo opificio si nascondono storie di vita vissute e dimenticate, storie di donne della metà del secolo scorso che lavoravano qui giorno e notte, tutto l’anno, nel tempo delle guerre e della miseria, trasportando dalle grotte al casone pesanti massi, portati a valle sui carrelli di una teleferica o spesso in ceste trascinate sulle proprie teste.

Si scavava con pali di ferro e piccozze e si facevano lavorare anche i bambini. Un villaggio, uno spaccio e una scuola elementare a ridosso della miniera ci riporta i racconti di uomini vissuti nell’anonimato.

Noi invece oggi andiamo dal casone alle grotte, facendo il percorso inverso, attraverso il bosco di querce e i colori di un autunno ancora caldo, mentre immaginiamo tutta la fatica di una strada percorsa senza poter mai “sostare sulle cose”.

Inizia la salita verso il “Varco del Patanaro” a 938 m di altezza, seguiamo il ruscello in discesa attraverso la faggeta, qualche accomodata sui tappeti delle foglie color amaranto e infine, finalmente, la parete rocciosa con i suoi tre accessi bui alle grotte.

Eccole le miniere di Ittiolo, che racchiudono nascosti nella propria roccia una classe di carboni fossili, formatisi con i residui marini di epoche geologiche troppo lontane da noi, quando la dorsale dei monti dove siamo oggi era in prossimità del mare e le specie marine erano vicino ad un’antica barriera corallina.

Pesci e piante di 200 milioni di anni fa sono rimasti da allora imprigionati in queste montagne, tra il monte Pettine e la valle del Cerasuolo, e i loro resti fossili oggi ci raccontano la “storia geologica della Campania”.

Un giacimento ittiolitifero, una terra popolata da milioni di predatori con denti aguzzi che si cibavano di molluschi e dei loro gusci, di cui siamo a conoscenza grazie al lavoro di raccolta e catalogazione dello studioso Costa, zoologo e naturalista che soggiornò per circa due anni nel rifugio del Casone, dove oggi ci fermeremo per il solito rito del banchetto.

Ma niente pesci fossili per il pranzo, solo panini, banane e moderno baccalà.

Entriamo dall’ingresso centrale che ci sembra il più agevole e, torcia in fronte e capo chino, ci addentriamo negli androni bui delle labirintiche gallerie, che ci portano passo passo verso l’interno delle grotte.

L’umidità inodore della roccia, il buio totale, il pavimento scivoloso sul quale camminiamo, sono il valore aggiunto dell’avventura ad una semplice giornata tra i boschi.

Diciamo qualche parola a caso per sentire la nostra eco tra le pareti: ci sentiamo infantili  ma felici.

Fotografiamo velocemente una colonia di pipistrelli che sono nel loro tranquillo letargo invernale: sappiamo che non dovremmo disturbarli, ma è troppo bello fermarsi a guardarli mentre, quasi l’uno sopra all’altro, riposano a testa in giù con le loro meravigliose ali senza piume.

Sarà il buio che fa da sfondo e il gran silenzio, ma ogni dettaglio che sveliamo qui dentro ci sembra più bello. È qui che la natura si rivela con il suo pudore e insieme la sua bellezza.

Per questo piccolo tesoro però bisogna ricordare due giffonesi  – D’Angelo e Visconti – che decisero di aprire la miniera sotto la direzione di Maria Bakunin, celebre donna nella storia della chimica, che tra il 1910 e il 1920 soggiornò a Giffoni ed eseguì le prime estrazioni, approfondendo la preparazione chimica dell’ittiolo che definì la “pietra nera foriera di fuoco e di energia”.

Solo nel 1924 però si parla per la prima volta dell’estrazione dell’ittiolo in territorio dell’Italia meridionale sul “Piccolo Corriere di Salerno”.

La Bakunin ci conduce alla riscoperta dei primordi dell’industria del petrolio perché le rocce sedimentarie dei Picentini che Marussia studiò, con il loro alto contenuto di sostanze organiche, sono annoverati tra le riserve petrolifere: è possibile cioè da esse estrarvi il cosiddetto bitume (da cui scisti bituminosi) da cui poi è possibile ottenere petrolio.

Complessi procedimenti chimici per estrarre il petrolio che non risultavano economicamente vantaggiosi e la venuta del mercurio cromo sul mercato farmaceutico che fece crollare la richiesta dell’ittiolo, hanno fatto cadere la miniera in disuso dalla fine della seconda guerra mondiale.

Ma la conoscenza della composizione delle rocce in un luogo come questo, il quale ha segnato secoli di cultura di un territorio, a noi oggi serve per continuare ad avere memoria del passato.

Ricordare” è un modo che abbiamo per capire la bellezza intrinseca delle cose che, attraverso la natura e i suoi segni, raccontano la storia dell’uomo.

“Dalle caverne preistoriche alla metropolitana, sotto i nostri piedi esiste un “altro mondo”, affascinante e un po’ nascosto.”
Giovanni Caprara