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30 gennaio 1969, il giorno dell’ultimo sipario sugli show dei Beatles

Il 30 gennaio di cinquant’anni fa un tetto di Londra fece da scenario per l’ultimo atto live del mondo Beatles. Ecco la storia di un mini show e di una pausa pranzo movimentata interrotta dalla polizia

Vendere quasi 180 milioni di dischi in tutto il mondo in un modo tale da influenzare per sempre il panorama musicale, ed infine congedarsi da esso con un concerto di fronte a poche decine di persone. Probabilmente neanche il più acclamato regista di Hollywood avrebbe mai potuto immaginare un film con un canovaccio del genere, forse perché abbiamo a che fare con una trama che supera di gran lunga ogni tipo di fantasia. E che ha come protagonisti i Beatles.

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Lo scenario è il tetto di un caseggiato situato nella centralissima Savile Row di Londra, al cui civico 3 era possibile trovare la sede della Apple Records, l’etichetta discografica fondata dai fab four con l’intento di amministrare e diffondere le produzioni del gruppo affiancandole alla scoperta di nuovi talenti. All’epoca dei fatti, però, l’attività della casa discografica stentava a decollare in maniera totalitaria sia a causa di svariati malumori presenti da tempo all’interno del gruppo, sia per effetto di un contratto cinematografico stipulato con l’americana United Artists, il quale prevedeva che i Beatles avrebbero dovuto realizzare l’ultimo film per una trilogia composta da “A hard day’s night”, datato 1964, e “Help!” risalente al 1965.

Dopo aver incassato il rifiuto di concludere il progetto con l’ utilizzo del lungometraggio animato intitolato “Yellow Submarine”, ritenuto non idoneo dai vertici della United Artists, i quattro “coleotteri” decisero allora di creare un nuovo lavoro costituito da una serie di registrazioni video relative al making of di quello che in principio fu intitolato “Get back”, un album che da progetto di Paul McCartney avrebbe dovuto sacrificare le sperimentazioni dei precedenti “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” e “Revolver”, per tornare al rock and roll dei primi tempi con cui tentare di dare nuova linfa agli umori del team sempre più allo sfascio.

Le registrazioni dell’album si svolsero a fasi alterne tra gli studi Twickenham Film, ritenuti molto scomodi dai membri della band perché disponibili solo di mattina, e quelli della Apple Records, allestiti in uno scantinato,  e riuscirono a generare un quantitativo di file video pari a circa 96 ore, che nella fase di montaggio si sarebbero dovute unire ad un finale in cui i Beatles avrebbero dovuto performare dal vivo e a sorpresa le nuove creazioni. E avrebbero dovuto farlo pensando in grande.

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L’idea del tetto

La scelta di sfruttare il rooftop sopra gli uffici della Apple Records per un concerto avvenne come risposta ad una esigenza logistica ed organizzativa, in quanto tra le opzioni considerate dall’entourage della band iniziarono a figurare solo location abbastanza proibitive come l’utilizzo di un anfiteatro romano, una nave da crociera in mare aperto o addirittura le dune del deserto sahariano.Tutti scenari costosi, che non solo non incontravano il favore dei ragazzi, ma che inoltre richiedevano troppo tempo per essere allestiti ed adattati alle richieste della produzione. Di qui nacque l’idea, la cui mente è ancora ignota, di spostare la strumentazione al piano superiore per esibirsi all’aria aperta e lontano da occhi indiscreti.

Il tetto del caseggiato, infatti, non presentava alcun problema eccetto quello del vento, quasi totalmente eliminato dai file audio mediante l’apposizione di calze da donna sui microfoni, e del freddo, cosa che costrinse Lennon e Ringo ad indossare un impermeabile ed una pelliccia avuti in prestito dalle rispettive consorti. Con la semplicità di questi accorgimenti, e sfruttando un’ idea di cui ancora oggi tutti vogliono rubare il merito, verso le ore 12.00 del 30 gennaio 1969 i Beatles iniziarono finalmente a diffondere le loro note inedite rivolgendole al cielo di Londra con un set della durata di quaranta minuti circa e che in brevissimo tempo radunó in strada una folla di curiosi, la maggior parte dei quali dipendenti degli uffici vicini in pausa pranzo, ignari di cosa stesse accadendo a cinque piani di distanza dal selciato britannico. Il mixer situato nello scantinato del palazzo registró le voci dei fab four, mentre le videocamere ne seguirono gesti e movenze destinati a diventare vera e propria storia della musica.

Per uno strano scherzo del destino, infatti, quello del rooftop rappresentò la prima apparizione in pubblico dei Beatles dopo tre anni di studi di registrazione ed assenza di live (l’ultimo tour ufficiale è datato 1966), ed allo stesso tempo l’ultimo concerto come gruppo, prima dello scioglimento ufficiale avvenuto nel 1970.

Prima di essere interrotto dalla polizia allertata dal caos venutosi a creare in strada, il set fu inaugurato dalla doppia esecuzione di “Get back”, per poi proseguire con i test delle varie versioni ipotizzate per “Don’t Let Me Down”,  “I’ ve Got A  Feeling”, “The One After 909” e “Dig a pony”, intervallate da un accenno dell’inno nazionale britannico e da alcune battute proferite dal duo McCartney – Lennon relative a digressioni sul cricket ed al freddo pungente . Il tutto venne utilizzato per  fare da preambolo alla frettolosa chiusura affidata al terzo take di “Get Back” ed alle parole goliardiche dello stesso frontman impellicciato che rivolgendosi ad un pubblico immaginario afferma: “speriamo di aver passato l’audizione.

La metà dei 42 minuti totali di riprese venne utilizzata per completare il progetto video che, dopo una lavorazione durata circa un anno, mutó il suo titolo da “Get back” a “Let it be” e venne pubblicato tra gli elogi della critica che portarono in dote al lavoro finale un premio Oscar ed un Grammy per la colonna sonora. I cinque pezzi eseguiti nell’esibizione del tetto vennero a loro volta sommati ad altri brani, tra cui figura la title track“Let it be”, registrati durante una sessione acustica nello scantinato della Apple Records e pubblicati ad un anno di distanza dallo scioglimento ufficiale del gruppo.

Nè il successo del documentario nè la pubblicazione avvenuta a settembre del 1969 del nuovo album “Abbey Road”, infatti,  riuscirono a placare i dissidi sempre più frequenti all’interno della band che, a seguito del matrimonio tra John Lennon e Yoko Ono, si sciolse definitivamente nell’aprile del 1970, probabilmente ignara di aver segnato per sempre la storia con quaranta minuti di musica quasi improvvisata su di un anonimo tetto di Londra.

Ivan Galluzzi

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