30 Settembre 2022 - 08:00

Blonde: Dominik e le potenzialità nascoste del biopic

Blonde

Con “Blonde”, Dominik porta a compimento una riflessione sulle forme del biopic condotta da sempre. E lo fa destrutturando, ancora una volta

Negli ultimi anni, si è assistito sempre di più all’ascesa di un genere che ha incontrato non solo i favori del pubblico, ma anche quelli dell’establishment cinematografico. Il film biografico, denominato biopic, ha incontrato sempre di più il parere positivo sia della critica che del pubblico. In questo modo è praticamente esploso, negli ultimi anni, in cui la produzione di questa tipologia è diventata praticamente bulimica. Un regista come Andrew Dominik, però, ha trovato il modo di sperimentare sul genere anche attraverso il suo ultimo film, “Blonde“.

Parliamo di un film che è sbarcato su Netflix proprio ieri, dopo essere stato in competizione per il Leone D’Oro a Venezia nella 79a edizione. Un film che è stato additato, fin da subito, di polemiche riguardanti sia la scelta di Ana De Armas come attrice principale (scelta poi rivelatasi incredibilmente azzeccata) sia riguardanti le scene scioccanti, esplicite e assolutamente controverse che si alternano all’interno del biopic. Una presentazione, quindi, non proprio entusiasmante.

Non a caso, il dibattito su “Blonde” risulta, fin da subito, fortemente polarizzato. Come ampiamente pronosticabile, non c’è spazio per vie di mezzo, Dominik ha creato un film che si ama o si odia. Un film che nasconde in sé tutti i discorsi che lo stesso regista ha sempre fatto suoi (cinematograficamente parlando). Così, li eleva in un film che si rivela estremamente contemporaneo, pur non lasciando il passato al di fuori del dibattito generale.

Controverso, difficile da sviscerare, densissimo di cinema e concetti. Pronti per questo nuovo viaggio all’interno (e all’esterno) di Marilyn Monroe?

Fama e fame

Sembrerebbe facile mettere in evidenza subito di cosa parla “Blonde“. In realtà, si tratta di un film molto più complesso di quanto si possa evincere anche solo dalla trama. Ma andiamo con ordine. Naturalmente l’oggetto del discorso e del film è Norma Jeane Mortenson (Ana De Armas), che è cresciuta dalla madre instabile Gladys (Julianne Nicholson). La bambina cresce nella speranza di ritrovare il padre che non ha mai conosciuto. Si ritrova, però, a convivere con il terrore di poter morire a causa di sua madre, che viene ricoverata in un ospedale psichiatrico.

Dopo esser cresciuta in una casa adottiva, Norma negli anni ’40 diventa una “pin-up girl” con il nome d’arte di “Marilyn Monroe“. Sfonda poi nel mondo del cinema nel 1950 con il ruolo di Nell in “Don’t Bother to Knock“. Da lì in poi è una crescita continua di popolarità, coniugata però da eccessi extra-filmici (tra cui la relazione poli-amorosa con i due figli di Charlie Chaplin e Edward Robinson). Norma resta incinta, ma decide di abortire per paura che il bambino possa ereditare i problemi mentali di Gladys.

Nel frattempo, la protagonista di “Blonde” diventa sempre più preda del suo stress. Preda della costante attenzione della stampa. Così decide di fare ricorso agli psicofarmaci per attutire il mondo che la circonda. Ciò, però, la porta a diventare tossicodipendente con esiti assolutamente spiacevoli.

Un film che non si accontenta di narrare la semplice storia vitale di una delle attrici più famose di tutti i tempi, ma va oltre.

Ragionare sulla forma

Come prevedibile da quanto scritto in precedenza, “Blonde” è un film atipico, che pone in essere l’alterazione della struttura profonda di un genere cinematografico come il biopic e lo plasma in funzione di ciò di cui vuole parlare. Al netto di tutte le polemiche (che, per carità, possono anche essere legittime per un film che divide nettamente), ciò che risalta è l’abilità, da parte di Dominik, di restare estremamente coerente con la sua idea di cinema e, anzi, di esaltarla.

Così, ancora una volta, abbiamo un regista capace di ragionare e di destrutturare gli ambienti di un certo tipo di cinema passato. Un cinema ormai ben ancorato a dei canoni di rappresentazione “classici”. Un regista capace di prendere le forme del genere ed ibridarle. Il film biografico, come in “Blonde“, cessa la sua funzione calligrafica. Si accorpa, piuttosto, a realtà apparentemente distantissime (come, in questo caso, l’horror) tra loro. Soprattutto, in questo modo si colloca nell’attualità.

Se in “The Assassination Of Jesse James By The Coward Robert Ford” la decostruzione dell’immaginario western serviva ad espandere la funzione del mito nel racconto e il mezzo cinema amplificava la portata di questo fenomeno, qui è la funzione dell’icona cinematografica ad essere presa in causa. Marilyn Monroe diventa il tramite per scardinare il mito della Hollywood del cinema classico e al contempo del biopic. Quest’ultimo non assume più semplice forma commemorativa, ma diventa anzi espressione di retrogradazione e di svalutazione dell’epoca che fu.

Superficialmente, “Blonde” potrebbe essere infatti additato come maschilista in modo gratuito, senza comprendere che proprio il maschilismo funge da descrizione dell’industria dell’epoca. Un’industria che considera il corpo della bravissima Ana De Armas come un feticcio, spogliato della sua sensibilità e costretto a bambola di carne.

Blonde, Spencer e il biopic contemporaneo

Un’operazione che ricorda molto un altro biopic uscito lo scorso anno, ovvero “Spencer” di Larraìn. Come il regista cileno, anche Dominik decide di rinchiudere la protagonista di “Blonde” nei suoi primi piani. A differenza sua, però, stringe ulteriormente il campo, grazie all’alternanza dei formati tra 4:3 e 16:9. L’effetto è quello di regalare allo spettatore completa alienazione. Una distorsione (anche grazie all’uso di contrasti nelle immagini) della realtà piena di suggestioni visive e di un bombardamento audio-visivo incessante.

Un biopic che, man mano che passa il tempo, diventa sempre più stringente, tale da far emergere tutto l’orrore dello star system (ed anche quello corporeo, come mostra una delle sequenze più controverse dell’intero film). Rispetto al film su Lady Diana, però, Dominik decide di far provare agli spettatori di “Blonde” ulteriore gelo. A questo si deve l’assenza della colonna sonora e del commento musicale, che invece Larraìn aveva ben affidato al mitico Jonny Greenwood.

Il risultato è un film che rappresenta un’esperienza totale. Un’opera che si permette anche di lasciare fuori campo la violenza più aggressiva per concentrarsi sulla distorsione dei visi dell’universo del film stesso. Il Cinemascope, in questo senso, svolge un ruolo fondamentale, in grado di allungare e distorcere i visi degli altri protagonisti del film e addirittura da sfociare in alcune sequenze degne di un found footage.

Tra soggettive impossibili, dissolvenze incrociate che rappresentano il martirio di una figura così tanto importante ma che allo stesso tempo si riscoprono dissonanti con una camera che si muove perlopiù in diagonale, mostrandoci un punto di vista già distorto di suo, le soluzioni stilistiche di Dominik si riscoprono sempre intriganti.

Un immaginario trasmigrato

Blonde” è dunque un film che non solo riflette sulle forme di spettacolo e cinema, ma regala un’esperienza impossibile da dimenticare, raggiungendo il suo zenit nel finale. Un finale che regala la definitiva assoluzione all’anima di Ana De Armas e la pone, allo stesso tempo, come io definitivamente dissolto. La ricostruzione è affidata ancora una volta alle mani del regista, che decide di amare l’essere umano prima ancora del suo personaggio.

Ed è così che Ana De Armas da bambola, com’è stata mostrata per la maggior parte del suo tempo dello schermo, si trasforma in un’umana vera e propria. Un percorso quasi di sacralizzazione (o di umanizzazione) della figura. Di una donna che semplicemente cercava due cose dalla propria vita: il voler essere una madre e il voler essere amata a tutti gli effetti, soprattutto nel suo essere una bambina mai troppo cresciuta.

Sacralizzazione che poi prende vita a tutti gli effetti tramite una dissolvenza incrociata. Il montaggio diventa strumento di collante tra cinema passato e futuro, tra corpo e anima che, piuttosto che staccarsi, diventano finalmente un tutt’uno prendendo pace.

Un “martirio” che potrà anche far storcere il naso ai più, ma che si dimostra coerentissimo con tutta l’operazione di fondo, ed eleva “Blonde” a grandissima esperienza collettiva. Un’esperienza che va ben oltre il classico film biografico e che va ben oltre (addirittura) il cinema stesso.