5 Aprile 2019 - 06:00

Border: la nuova “fiaba nera” della cinematografia svedese

Border

Il film d’esordio del regista iraniano Ali Abbasi, Border, è una vera e propria novità che spiazza gli spettatori. Sempre sospeso tra dramma e fantasia

John Ajvide Lindqvist. A primo acchito, il nome non direbbe nulla a nessuno. Andando a sbirciare su Wikipedia, però, ci si accorge di quanto quest’ultimo sia stato importante dal punto di vista cinematografico negli ultimi anni. La Svezia ha avviato la sua rivoluzione cinematografica anche grazie a lui e i suoi racconti. Questi ultimi hanno ispirato due veri capolavori come Lasciami Entrare (del 2008) e, dieci anni dopo, il fantastico Border.

Border è un film che colpisce da subito. Sia per la classe con cui è messo in scena, sia per rivoltare come un calzino il genere fantastico “imbastardendolo” con altri generi. Ali Abbasi, regista dell’opera, grazie a questa intuizione, riesce a regalare qualcosa di totalmente nuovo. Qualcosa che riesce a coinvolgere i sensi dello spettatore, ad immergerlo totalmente in questa dimensione così surreale e così realistica allo stesso tempo. Qualcosa che affascina con un’esperienza totalmente viscerale dai risvolti cupi.

La storia è dolente, tocca temi scottantissimi e riesce a farlo in un modo immersivo. A tratti, durante la sua visione, potremmo quasi parlare di un film sensoriale che riesce a fare della sua profondità il vero e proprio punto cardine. Un film che, nel suo strato interno, è nero come la pece. Sebbene racconti un evento lieto (una storia d’amore) non fa sconti a nessuno e presenta tutti gli aspetti più drammatici di una vicenda apparentemente innocua.

A tratti è straziante, a tratti è davvero infimo e affonda i suoi artigli nell’animo umano, esponendo una critica sociale attraverso un racconto toccante ed emozionante. Un film candidato agli Oscar per il miglior trucco (senza però vincere) e già premiato a Cannes, nella sezione Un Certain Regard.

Ma andiamo con ordine.

Una storia di amore e ferocia

Con questo titolo, si può sottolineare e riassumere in una semplice espressione il tratto veramente sorprendente di Border. Il film si articola in una storia avvincente, piena, ricca di colpi di scena e davvero sensoriale e piena di emozioni.

Border è la storia di Tina (una magistrale Eva Melander), donna dall’aspetto insolito, che lavora alla polizia doganale del confine. Dotata di un fisico massiccio e di un olfatto eccezionale, riesce a intercettare contrabbandi e crimini. Un giorno, l’incontro con un uomo misterioso, tale Vore (un ambiguo e altrettanto magnifico Eero Milonoff), appassionato d’insetti e con il suo stesso difetto, sconvolge totalmente la sua vita.

Sullo sfondo, però, si attesta un’inchiesta criminale che coinvolgerà una serie di omicidi e lo stesso Vore, con cui Tina lascia i freni e si abbandona a una relazione selvaggia che le rivela presto la sua vera natura.

Il silenzio e la messa in scena in Border

Border è un film completamente insolito per le nostre abitudini cinematografiche, qualcosa che rompe chiaramente gli schemi. A parlare, non sono le voci dei protagonisti, ma le loro espressioni e i loro silenzi, oltre alle immagini e allo sfondo di una Svezia che si mostra in tutta la sua natura magnifica.

Ciò dà alito ad una vera e propria “fiaba nera“, in tutti i sensi, dove l’aura di mistero permane e anzi accresce immagine dopo immagine, secondo dopo secondo. Il film gode di una messa in scena semplicemente magnifica, mozzafiato. Di una regia sempre composta, geometrica e ordinata (nonostante i movimenti di macchina, che rendono più “sporca” l’immagine filmica). La fotografia è fantastica, dotata di luci e colorazioni naturali cupe e buie, che portano con loro tutta l’oscurità del racconto e la sua dimensione gotica.

Border è un film che si nutre dell’espressività dei suoi protagonisti, di un racconto che svela pian piano tutti i segreti della vita di Tina. Come tessere di un puzzle che si incastrano pian piano, e che svelano una dimensione drammatica e intensa, piena di colpi di scena e di un finale con cui tutte le mamme del mondo si identificheranno. La componente intimista è molto accentuata. Il racconto, però, riesce a donare la giusta tensione per catturare l’attenzione dello spettatore e donargli anche aspetti più “duri da digerire”.

I dialoghi sono diretti e brevi, donano respiro agli eventi e coinvolgono sempre a pieno nella vicenda. Tramite questi, si compirà anche il percorso di formazione di Tina. Lei compirà una metamorfosi radicale durante tutto il corso del film, assumendo uno spessore incredibile. Il trucco dei protagonisti è perfetto, davvero efficace (non a caso, candidato agli Oscar), e rende alla perfezione la mostruosità ma anche la tenerezza dei due protagonisti.

Il disturbo

Non c’è dubbio. Border è un film che riesce a restare indelebile nelle menti di chi lo guarda, soprattutto per il disturbo che causa agli spettatori. Stiamo parlando di contenuti davvero ai limiti del body horror (come la scena di sesso ferocissima tra Tina e Vore, tra le più esplicite e carnali di sempre), che si innestano perfettamente nel racconto e scombussolano ulteriormente lo spettatore.

Naturalmente, questo è sia un punto di forza che un punto debole, in quanto seleziona accuratamente il pubblico. A infondere ancora più stranezza, è la “maternità al contrario” (ovvero è Vore a partorire il figlio) di cui il film si forgia. Il concetto è interessantissimo, rovescia un topos che da sempre è tabù della cinematografia, e lo fa in modo appariscente e senza mezzi termini.

A qualcuno, anzi, a più persone potrebbe quasi repellere, dar fastidio. Ma in una storia nera come la pece come quella di Border, in cui vi è anche una sorta di emancipazione dagli umani da parte di Tina e Vore, si innesta perfettamente.
Proprio Vore è l’ago della bilancia dell’intera storia. Ambiguo dall’inizio alla fine, è un elemento insidioso per la stessa narrazione e crea suspense e straniamento nello stesso spettatore, che potrebbe essere quasi infastidito dalla sua presenza.

Ma, paradossalmente, è proprio questo a rendere il suo personaggio unico. Un “cattivo” che non è davvero “cattivo”, che alla fine funziona come veicolo per l’obiettivo della protagonista: scoprire la sua vera natura. E lo stesso finale riesce a far capire che l’obiettivo si compie, rendendo ancora più magico e particolare lo stesso film, che rovescia il lieto fine, fregandosene delle classiche regole fiabesche.

E così, ottiene un risultato davvero stupefacente.