Zon.it si sofferma su una delle opere più importanti del regista David Lynch: The Elephant Man. Tra il grottesco e l’emozionante, il cineasta americano firma il suo primo capolavoro
Dopo l’esordio
“visionario” con
Eraserhead,
David Lynch divenne uno dei paladini del cinema underground di fine anni ’70. Il film ebbe un
successo clamoroso, portando all’attenzione di tutti i critici cinematografici il nome del regista. Ispirato dal successo della prima opera, Lynch elabora quello che è il suo
primo vero capolavoro:
The Elephant Man. La realizzazione del film fa ricredere anche i più scettici, i detrattori del regista. Il film risulta
scorrevole e poetico, strizzando l’occhio a quel
Federico Fellini che lo stesso regista ha sempre considerato come “mentore”. Non per questo, però, risulta meno angosciante e più semplice. Sono, infatti,
molteplici i temi affrontati in questa pellicola, che si può considerare una vera e propria
pietra miliare del cinema d’autore internazionale.
Le meraviglie dell’Uomo Elefante
Il film è tratto da
una storia vera, e narra delle vicende di
Joseph Merrick (interpretato da un
John Hurt capace di toccare le corde più profonde della sensibilità umana), uomo inglese dell’età vittoriana. Il protagonista è affetto dalla cosiddetta
Sindrome di Proteo, che gli causa evidenti
deformità nel corpo e nella testa, facendogli guadagnare il triste e offensivo appellativo di
Uomo Elefante. Merrick è sfruttato dallo spregevole
Bytes (
Freddie Jones) come
fenomeno da baraccone nel suo circo. Nel frattempo, il dott.
Frederick Treves (il cui ruolo è affidato ad uno “sconosciuto”
Anthony Hopkins) viene attirato proprio dall’
Uomo Elefante (appellativo di Merrick), che salva dalle grinfie di Bytes. A questo punto, la vicenda prende
una piega decisiva. Infatti, Merrick
si “rifugia” nell’ospedale di Treves, e proprio lì dà prova delle sue eccezionali doti culturali e umane, portando addirittura all’attenzione
la Regina Vittoria e l’attrice teatrale Miss Kendall (
Anne Bancroft). Ben presto, però, le attenzioni ad esso riservate provocano
invidia da parte degli altri “rifugiati”, che tentano di vendicarsi senza successo. Nel caos, l’Uomo Elefante riesce a prevalere
su tutto e tutti, e a rivendicare tranquillamente il suo
diritto ad una vita serena. Il suo obiettivo, quello di farsi considerare alla stregua di tutti gli altri uomini, alla fine viene raggiunto con successo.
“Io non sono un elefante! Io non sono un animale! Io sono un uomo!”
Il titolo del paragrafo è già eloquente, e contribuisce a spiegare la
poetica cinematografica di Lynch. La meravigliosa parabola del protagonista ha una duplice funzione,
narrativa e sociale. Da un lato, il regista, in contrapposizione con tutta la sua cinematografia, ci propone una
storia d’autore, mirando a raccontare una
“storia straordinaria di vita quotidiana”. Dall’altro,
abbatte tutte le barriere e i pregiudizi che si possono creare quando si entra in contatto con il “diverso”. Attraverso una storia molto particolare e comunque dai canoni leggermente horror (l’influenza di Eraserhead vi è ancora, anche se in minima parte), riesce a trattare un tema che ancora oggi affligge l’umanità:
il razzismo.
The Elephant Man suona come
un’ammonizione, un invito a non fermarsi alla mera apparenza e a guardare in profondità, nell’animo più puro. Chiunque di noi, almeno una volta nella vita, è stato messo da parte, e Lynch ha il merito di farci identificare pienamente con il
“diverso”. Il regista crea un
rapporto empatico tra lo spettatore e Merrick, sottoponendo il pubblico ad un percorso infernale. Percorso mirato a rivelare tutta la crudeltà e l’ipocrisia a cui possono arrivare le persone verso ciò che è diverso dal loro piccolo e ottuso mondo.
E centra in pieno il suo obiettivo.
L’ossessione “felliniana” di Lynch
L’aspetto tecnico di
The Elephant Man non lascia spazio a critiche. Parliamo di un film che per
pulizia dell’immagine,
prospettiva e
suggestione ha fatto sicuramente scuola a molti. Non a caso, il film vinse il
BAFTA per la miglior scenografia e fu candidato ai
Golden Globes e agli
Oscar per
regia, montaggio e costumi. Una vera e propria perla tecnica, oltre che emozionale, per cui Lynch deve davvero tanto ad un maestro nostrano:
Federico Fellini. A parte il “tributo”, celato nella realizzazione del film in bianco e nero, al regista italiano Lynch deve la cura per la
fotografia e per le
ambientazioni, con dei dettagli che rasentano la perfezione. La scelta delle angolature per ogni immagine, l’attenzione per ogni singolo fotogramma regala un vero e proprio spettacolo per ogni esperto e critico cinematografico, che nel guardare la pellicola non può che riconoscere uno dei più splendidi capolavori di tecnica cinematografica. Lo stesso regista ha poi confermato, in varie interviste, di amare Fellini e il suo capolavoro,
“La Dolce Vita”. Ineccepibili, poi, i costumi e la scenografia, con una
cura del trucco a dir poco “paurosa” (basti pensare alla trasformazione di
John Hurt). Gli ambienti risaltano il
pacchiano di quella classe borghese che Lynch critica, dal primo secondo alla fine del film. Aspetto che verrà poi preso in considerazione da fior di registi, su tutti
Terry Gilliam. In questo campo, il cineasta americano è stato un maestro, un vero e proprio leader da seguire. Altra grande nota per la colonna sonora di
John Morris, in tinta perfetta con le dinamiche del film, toccante al punto giusto. La perfetta musica per completare un capolavoro, un classico senza tempo,
davanti al quale anche per i più duri è difficile non sciogliersi in lacrime almeno una volta.
Il primo capolavoro di una lunga serie
The Elephant Man porta con sé una vera e propria
svolta nella carriera autoriale di Lynch. Il film riesce a far innamorare tutti, anche i detrattori più accaniti del regista, che con questo film elabora a tutti gli effetti
il suo primo “capolavoro”. Non è ancora il Lynch “vero” e proprio, quello di
Twin Peaks, per intenderci. Nonostante ciò, il regalo fatto agli spettatori e alla storia del cinema è grandissimo e commovente. Una pellicola
senza difetti, dal forte impatto comunicativo. Del resto, se ne parla tutt’oggi, a quasi
40 anni dal suo rilascio effettivo sul mercato cinematografico. Un motivo, anche più di uno, ci sarà.