30 Gennaio 2023 - 08:00

Copenhagen Cowboy: la fluidità secondo Refn

Nicolas Winding Refn è tornato alla ribalta, questa volta su Netflix. “Copenhagen Cowboy” equilibra i discorsi autoriali e commerciali

Da un po’ di tempo non si sentiva parlare di lui. Nicolas Winding Refn, dopo essere sbarcato ufficialmente nel mondo delle serie TV e dello streaming con “Too Old To Die Young“, ha annunciato una serie di progetti da mettere in atto nel futuro. Il primo di questi di cui noi spettatori siamo riusciti a vedere la luce è stato “Copenhagen Cowboy“, un prodotto di difficile definizione che trascende il presunto limite tra serialità e cinema.

Sempre più spesso, infatti, soprattutto negli ultimi tempi, gli spettatori e i fruitori di dispositivi mediali sono alle prese con dei prodotti il cui turning point tra serialità televisiva e film è difficile da intravedere, se non praticamente inesistente. Si palesa, piuttosto, la metamorfosi di un cinema e di una cultura audiovisiva che vira sempre di più verso l’ibrido, verso quella fluidità che sarà uno dei discorso cardine affrontati da Refn proprio in “Copenhagen Cowboy“.

Una fluidità che lo stesso regista analizza sia nel piccolo (e quindi nella fattispecie nell’argomento cardine della serie stessa) sia nel grande (ovvero nell’indecifrabilità della struttura seriale e nel suo continuo rimaneggiamento). Proprio questo continuo dispiegarsi di dispositivi di vario tipo assume una conformazione che mischia, in modo del tutto consapevole, estetica (e videoarte) e intrattenimento.

“Copenaghen Cowboy” dunque può tranquillamente straniare ad una prima visione, finanche gli appassionati e i “fedelissimi” del regista danese. Uno straniamento che, però, risulta del tutto coerente man mano che l’opera va avanti, e che raggiunge il suo senso effettivo, oltre a ricollegarsi benissimo alle ultime estremizzazioni della carriera di NWR stesso.

Il “dono” e il mistero

Parlare di una serie come “Copenhagen Cowboy” è davvero ostico, in primis perché è una serie che sancisce il ritorno di Refn a casa. Dopo esser partito per lidi esterofili e per gli USA, il regista danese torna a casa. Ed è un ritorno che investe sia la produzione sia l’effettiva vicenda narrata all’interno della serie. Un ritorno davvero interessante, che delinea una vicenda altrettanto interessante.

Protagonista di “Copenhagen Cowboy” è Miu (una bravissima Angela Bundalovic), una donna ricca di misteri che indossa sempre una tuta blu. Quest’ultima è ingaggiata da una proprietaria di un bordello, tale Rosella (Dragana Milutinović), per uno scopo del tutto particolare. Si dice, infatti, che Miu abbia il potere di portare fortuna e compiere miracoli. La donna, inoltre, è una sorta di paladina delle donne, che difende e vendica nei confronti degli uomini.

Non è un caso che il discendente di una ricchissima famiglia, Nicklas (un magnetico Andreas Lykke Jørgensen), diventi di lì a poco la sua nemesi. Il giovane, dotato di bell’aspetto e di canoni di bellezza abbastanza riconoscibili, è in realtà un serial killer che ama uccidere soltanto donne in quanto tali. Il ragazzo concepisce il femminicidio come forma d’arte. Proprio questo porterà a scontrarlo con Miu, alle prese anche con la sua nemesi Rakel (Lola Corfixen, figlia di Refn).

Cocktail letale

Come detto in precedenza, descrivere un prodotto come “Copenhagen Cowboy” appare davvero difficile, anche perché la stessa serie sembra spostare l’asticella dello stesso Refn. Quello a cui assistiamo nella serie è un’organizzazione del tutto stramba. Però questo paradossalmente limita tutti i presunti “difetti” d’estremizzazione di stile dello stesso regista e li coniuga benissimo con l’evoluzione della storia.

Assistiamo a qualcosa che destruttura la stessa struttura archetipica delle serie TV. Man mano che procediamo con le puntate, si sviluppa uno sguardo in cui NWR, paradossalmente, tende ad usare stilemi propri del cinema commerciale odierno e delle major (qualcosa a cui raramente si assiste nel suo cinema) contaminandoli con il proprio linguaggio. Il risultato è un’ibridazione affascinante, un cinema in cui è il flusso, il continuo dispiegarsi di dispositivi di vario tipo ad essere la scia trainante.

Dal linguaggio prettamente filmico a quello musicale, fino a finire addirittura a quello videogamico, cavalcato in stile retrò (tramite scene affascinanti in 2D che non spoileriamo), quello che risulta essere “Copenhagen Cowboy” è un cocktail letale. Una conformazione che mischia in modo del tutto consapevole, probabilmente per la prima volta, estetica e intrattenimento, la videoarte e il cinema commerciale.

C’è tempo anche per attraversare tutti i generi possibili. Ma la vera novità risiede nella contemporaneità e, nel contempo, nel superamento di ciò che è il traino delle produzioni seriali e filmiche odierne. Una distinzione che, di fatto, la serie (a questo punto è difficile chiamarla tale) supera ed elimina. Come accade nell’ultima incredibile mezz’ora, segmento già da ora difficilmente eguagliabile nel 2023.

Un meccanismo, dunque, fluidissimo. E non è un caso che proprio di fluidità, nel concreto, parli anche la serie.

Il femminismo secondo Copenhagen Cowboy

Copenhagen Cowboy” è il superamento di quel presunto “snobismo” di cui lo stesso Refn è stato malamente tacciato negli ultimi tempi. Ma è soprattutto un modo in cui il regista prende in giro i suoi stessi presunti stereotipi, in modo da prendersi gioco anche dei detrattori. Infatti, nell’opera si assiste alla definitiva affermazione della donna, con la conseguente sminuita della figura maschile.

Lo svilimento del maschio passa attraverso la mossa di mettere in evidenza tratti assolutamente ilari della personalità di sesso maschile (quale la presunta grandezza di un membro, ad esempio). Passa attraverso l’accostamento di questi ultimi ad animali dalla dubbia moralità (come i maiali). Il risultato è evidentemente grottesco. Un grottesco tale da scatenare un forte complesso d’inferiorità. Quest’ultimo diventa origine della violenza sessuale ma che, allo stesso tempo, porta il maschio stesso alla sconfitta.

Una sconfitta non solo morale, ma anche fisica, nei confronti del presunto sesso dominante. Refn costruisce questa demolizione pezzo per pezzo, soprattutto dal punto di vista tecnico. In moltissimi casi, la regia di Refn, nel realizzare dei tableaux vivants stranianti, con campi fissi, zoom out e in e split-screen diegetici, avalla proprio la lettura del netto distacco “di sesso” nei confronti dell’immagine.

Un’immagine che dunque si ritrova alla mercé del gender. In cui gli stilemi classici conosciuti del regista (dai neon spinti alle dissolvenze incrociate) diventano parte integrante proprio di questa caduta del dominio maschile. Una caduta che, paradossalmente, in modo del tutto ironico, avviene per mezzo di corpi sì supereroistici, ma soprattutto androgini e misogini. L’esempio massimo è dato da protagonista e antagonista della serie. Quest’ultima soprattutto ricorda vagamente la figura decadente della Tilda Swinton di Jim Jarmusch.

Una divisione netta che sottolinea quanto siano le figure sovrannaturali il mezzo per cui la divisione sessuale diventa, di contro, unione. Unione in cui, non a caso, gli split-screen prima citati che costellano “Copenhagen Cowboy” si annullano in favore di allargamenti di campo.

L’ironia “refniana”

Copenhagen Cowboy” non è solo, però, la sconfitta del maschilismo. La serie rappresenta anche il tentativo riuscito di Refn di fidelizzare il proprio pubblico con il proprio brand. Non solo tramite la funzione prettamente estetica del suo cinema, quanto andando a marchiare la serie con dettagli decisamente in tinta con la sua poetica.

La serie porta Refn in un campo auto-referenziale dove lui stesso si mette in gioco in primo piano recitando. Mette in scena un gioco post-moderno che a molti sembrerà stucchevole. In realtà, tutto fa parte di quell’inguaribile ironia refniana” che lo stesso autore, anche tramite i suoi stessi profili social, propaga in più “round” da sempre.

Di fatto, Refn riesce a prendere in giro il proprio pubblico rifilandogli un prodotto che è palesemente un gioco. Uno scherzo fatto e finito che talvolta prende addirittura i lidi della fantascienza, per quanto gioca con i generi, affronta problemi dell’oggi tramite il cinema commerciale non dimenticando l’autorialità. Per quanto, soprattutto, scatena tutti i detrattori portandoli da una parte e dall’altra senza fargli raggiungere un centro effettivo.

Copenhagen Cowboy” è, in sintesi, la vendetta perfetta non tanto di Miu, quanto di Nicolas Winding Refn.