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Italia. Storia di un paese spaccato da Nord a Sud, da Destra a Sinistra

Fratelli d’Italia, il partito più a destra della colazione che vede protagonisti anche la Lega di Matteo Salvini, Forza Italia e Noi Moderati, è il più votato. E Giorgia Meloni “vede” già il Colle.

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L’Italia che si sta disegnando, scrutinio dopo scrutinio, è un Paese cambiato, che muta la sua pelle dopo le elezioni del 2018. Quel partito che era l’ultima stampella della coalizione del centrodestra, dopo anche l’inesorabile tramonto di Forza Italia, appena 5 anni dopo si prende tutto. Prende la leadership della coalizione. Prende il governo del Paese.

Giorgia Meloni ha condotto la sua campagna elettorale già da vincitrice, forte dei sondaggi che la davano in testa da mesi, ormai. Forte del fatto di essere stato – praticamente – l’unico partito di opposizione nell’ultima legislatura, prima durante il governo giallo-verde, poi quello giallo-rosso e infine quello delle larghe intese – del governo “dei migliori”. Forte di questo atteggiamento, la Meloni ha sapientemente raccontato al Paese di rappresentare l’unica forza politica coerente, lucida, fedele alla propria identità. Senza altri giri di parole, l’unico partito che non tradirebbe l’Italia e gli italiani. Giorgia Meloni, d’altra parte, è stata immediatamente identificata come il primo obiettivo da “distruggere” da parte degli altri partiti e coalizioni: vedi prima Letta, vedi Calenda. Uno dopo l’altro sono capitolati, come mosche, di fronte ad un’inarrestabile donna. Le accuse di apologia del fascismo, di omotransfobia, le critiche sulle posizioni antiabortiste, hanno indebolito le correnti di sinistra e del centro, sino a consolidare il consenso della leader di Fratelli d’Italia. Giorgia Meloni ha sempre saputo incassare ogni attacco, utilizzandolo a suo favore. “Dio, patria e famiglia” – la sua risposta. Tre concetti ed idee semplici, che hanno penetrato nel tessuto sociale italiano.

Sull’altro fronte Enrico Letta è riuscito a sbagliare tutto ciò che gli era permesso sbagliare. Silurato il Movimento 5 Stelle (che è vicino alla percentuale del Partito Democratico), litigato con Calenda (che con un cartello elettorale nato pochi mesi fa è poco sotto il 10%), decide di collocare al suo fianco Emma Bonino con +Europa (che è sul filo del rasoio del 3%) e Verdi-Sinistra Italiana (poco sopra il 3%). A completare il quadro il duo Tabacci-Di Maio (che è rimasto clamorosamente – o non tanto – fuori dal Parlamento, avendo preso meno dell’1%). Sia la Bonino che Bonelli, come Di Maio, sono figure che politicamente non sono riusciti ad avere un grande appeal elettorale: sommati sono alla stessa quota di Azione-Italia Viva, e meno della metà del Movimento 5 Stelle. Tra l’altro con importanti differenze sui punti del programma elettorale. Il primo errore, forse il più fatale, è una coalizione che ha già perso al calcio di inizio. Oltre al dato politico, la campagna elettorale del segretario dem ha rasentato il fallimento comunicativo e programmatico. Attacchi sterili alla coalizione di centrodestra, soprattutto verso Giorgia Meloni, che hanno solo rinsaldato i rapporti tra i leader di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. Battaglie politiche unicamente incentrate sui temi dei diritti civili. Battaglie di civiltà che, purtroppo, poche radici riescono ad avere nel consenso elettorale. Temi che, è evidente, non sono così caldi per gli italiani. Lavoro, stabilità politica, posizione sulla guerra, rincari sulle bollette, sgravi fiscali, agevolazioni per piccole e medie imprese: il PD – come tutta la colazione – su questi argomenti è stato evanescente.

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La scheda elettorale vuota

Nella storia dell’Italia repubblicana non c’era mai stata una così bassa percentuale di votanti alle politiche. Per il Ministero dell’Interno hanno votato per il rinnovo della Camera il 63,9% degli italiani, un dato in calo del 9% rispetto al precedente del 2018 (72,9%). L’affluenza in Calabria è del il 50,78%, seguita da Sardegna (53,15%) e Campania (53,3%). Al contrario, il massimo fu raggiunto a pari merito nel 1953 e nel 1958 con il 93,8%. Dal 1976 (93,4%) è iniziato un calo fino al 2001, poi un rimbalzo nel 2006 (83,6%) e di nuovo un calo continuo, elezione dopo elezione, fino al minimo di oggi. Sintomatico di una continua sfiducia, sempre maggiore, nei confronti della politica. Una mancanza di fiducia nella utilità del voto. Un dato drammatico che viene consegnato a Giorgia Meloni e a tutti gli altri leader.

L’Italia da Nord a Sud

Definitivamente tramontata l’idea di Matteo Salvini di creare una Lega che abbia la stessa risonanza a Milano così come a Napoli, dal Veneto alla Sicilia. Anzi. Crollare sotto il 9% può significare anche una Lega senza la leadership di Matteo Salvini. Fedriga e Zaia potrebbero già scalpitare, con posizioni meno a destra e più centriste e moderate. Entrambi – tra l’altro – sarebbero vicini a Giorgetti, la mente politica che muove il Carroccio, e che spesso ha criticato – più o meno apertamente – proprio Salvini.

Discorso al contrario, invece, per il Movimento 5 Stelle. Giuseppe Conte è indubbio protagonista di un clamoroso recupero, in termini percentuali, portandosi a ridosso del Partito Democratico. È il primo partito del Mezzogiorno. Tra i meno votati, però, al Nord. Conferma il trend che da sempre vede il Movimento poco incisivo al Nord, complice il Reddito di Cittadinanza (cavallo di battaglia anche di questa campagna elettorale) dove è mal digerito – e dove ha numeri di percettori molto basso rispetto al Sud. E anche i big del Movimento, a parte Chiara Appendino, sono per la maggior parte del Mezzogiorno.

Rischia di accelerarsi la parabola discendente di Matteo Renzi, che si è limitato a definire il proprio ruolo a quello di stampella d’appoggio per Carlo Calenda e il suo Azione. Renzi è stato tra quelli in campo, il leader che meno si è esposto, se non nell’ultimo periodo e in quello pre accordo elettorale con Calenda. Se lo ha fatto ha colpito più Letta che Meloni. A questo punto anche nel Parlamento, dove riusciva ad incidere anche con numeri irrisori, rischia di diventare un numero come un altro. Un numero piccolo. Irrisorio, e di poco conto. Per Calenda si può aprire, invece, un periodo di confronto reale con il Partito Democratico, o di quello che resterà. Unirsi? Ma come? Da avversarsi o da alleati?

Queste politiche potrebbero segnare la definitiva fine politica di Luigi Di Maio. Senza seggio, senza un partito vero. La sua sembra, col senno di poi, la strada già percorsa da personaggi come Angelino Alfano, Gianfranco Fini e Nichi Vendola. L’aver abbandonato il Movimento 5 Stelle, aver creato la scissione in Parlamento, ha segnato un punto di non ritorno. Forse, è stato il punto di ripartenza del M5S. Forse, è il punto di arrivo dell’ormai quasi ex ministro degli esteri.

Francesco Celetta

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