immagine da youtube
Fabrizio De Andrè o come amava definirlo Paolo Villaggio, il “Faber”, si spegneva l’11 gennaio del 1999. Sono trascorsi ventidue anni dalla sua morte procurata da un carcinoma polmonare, eppure nella memoria collettiva è vivissima la sua immagine di cantore popolare.
Raccontare vizi e virtù, ma facendolo in rima, e perché no? Denunciare, fomentare, istigare gli scomodi della società. Questo era il concetto più prossimo di fare musica in una maniera tutt’altro che comoda. Imbracciando la sua fedele chitarra, Fabrizio De Andrè dava voce a prostitute, reietti sociali, assassini, carcerati discriminati, figure narrative essenzialmente confinate a scarti della società
Ma non solo, nelle storie di “Faber” c’era anche spazio per la giustizia, quella veritiera o mendace dei giudici e delle forze dell’ordine. Le sue canzoni erano straripanti contenitori di verità presunte o certe che fossero, certamente estratte da una fedele fotografia dell’Italia del tempo.
Tra i brani più apprezzati di sempre rientrano la melanconica “Bocca di rosa“, la folcloristica e cantautorale “Il Pescatore”, ma anche l’amara “Dolcenera”. E così via con “Via del campo”, “Don Raffaè” e la “Guerra di Piero”. Fino ad arrivare alla non convenzionale “Ballata dell’amore cieco”.
Questi sono solo alcuni dei titoli di un campionario visivo prima che musicale, scritto e sottoscritto dal nostro De Andrè che mai purtroppo seppe rinunciare al vizio del fumo che molto probabilmente lo portò alla tomba. Quando venne a mancare, con lui nella bara anche un pacchetto di sigarette, nemiche-amiche di tutta una vita.
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