Facebook: offensivi anche i likes?
Sono offensivi anche i “likes”, i commenti e le condivisioni di post diffamatori su Facebook?
Innanzitutto, per i profani di Facebook, like (o altrimenti detto “mi piace”) si può definire il click che esprime gradimento a un pensiero o a una foto o a un qualsiasi altro elemento pubblicato sullo stesso social network.
Riepilogando, poi, il concetto di diffamazione anche a mezzo stampa, già affrontato in un precedente articolo su ZerOttoNove, può rapidamente concludersi che se si offende su Facebook è come se lo si facesse con l’uso della carta stampata.
Vi sono state, inoltre, sentenze (fra tutte v. Cassazione n° 16712/2014) che hanno addirittura condannato post offensivi su Facebook anonimi, cioè, che denigravano persone non nominate esplicitamente nel post ma, che, a una lettura più attenta, potevano individuarsi come persone offese (p.o.) essendo identificabili come datore di lavoro o collega o persona ben determinata legata da pregressi rapporti con il reo secondo i fatti esposti e narrati nel racconto non ortodosso del condannato.
A oggi, comunque, risultano anche i primi rinvii a giudizio di soggetti imputati del presunto reato di concorso in diffamazione aggravata (artt. 595 e 110 cod. pen.). A ogni modo, Facebook è stato definito dalla Cassazione (Sent. n° 37596/2014) come “luogo aperto al pubblico” (come esercizi commerciali, associazioni ecc. mentre “luoghi esposti al pubblico” sono ad esempio le automobili ecc. e, infine, “luoghi pubblici” sono le piazze, i giardini e tutti i posti di proprietà dello Stato) proprio perché l’accesso è consentito a un numero “limitato” di persone ovverosia a chiunque utilizzi la rete, in specie a coloro i quali vi sono iscritti.
Dunque, la Corte afferma che Facebook è una “piazza virtuale” che consente “un numero indeterminato di accessi e visioni, resi possibili da una evoluzione scientifica che il Legislatore non era arrivato ad immaginare.” Una piazza, quindi, come tale capace di raggiungere un numero non ben definito di persone che, però, facendo parte della ristretta rete di relazioni del reo e del diffamato sono in grado di arrecare nocumento (danneggiare in sostanza) la reputazione della p.o. e dunque integrare il reato in discorso. La pena prevista per tale reato parte da sei mesi fino a tre anni di reclusione oppure da non meno di Euro 516,00 di multa (3° comma, art. 595 cod. pen.).
Più probabilmente, l’aggravante individuata dai magistrati procedenti potrebbe essere quella prevista nel n. 1, art. 112 cod. pen., che aumenta la pena nel caso in cui il reato sia stato commesso da 5 o più persone, ma tuttavia non si conosce l’iter logico-giuridico seguito dai magistrati della Procura di Parma pertanto non resta che attendere l’esito del giudizio da loro promosso.
Oltremodo, anche i likes potrebbero essere l’aggravante nel caso di condivisione, cioè, se il correo del reato condividesse il post e poi cliccasse anche mi piace allora sarebbe presumibilmente corretto ritenere che il concorrente abbia sostenuto il post con la condivisione (configurando quindi il concorso) mentre con il like si vedrebbe addebitare anche l’aggravante di aver apprezzato positivamente l’offesa arrecata. Contestualmente e in effetti, si discute ormai da tempo da parte dei sociologi ed esperti di comunicazione, se il mi piace sia un vero e proprio apprezzamento positivo come si desumerebbe dalla stessa espressione semantica oppure se sia il frutto di una sub-specie di segnalazione (peraltro prevista dal social con la voce “segnala”) con la quale in realtà si vorrebbe identificare quel post come il contrario di quanto appunto affermato. La distonia, in effetti, nascerebbe dal fatto che non esiste la voce “non mi piace” (“dislike”) come da tempo in discussione ai vertici di Facebook che, d’altro canto, pone il serio problema delle manifestazioni d’odio a partire dal “cyberbullismo”.
Non credo, altresì, che per lo scrivente del post possa essere un’aggravante il like espresso da un altro utente Facebook e questo per evidenti problemi di volontà della condotta, cioè, oltre al noto principio di responsabilità penale personale, la condotta di altri non può rappresentare l’aggravante del diffamante eccezion fatta che per il reato d’istigazione a delinquere, art. 414 c.p. (valevole solo per taluni reati) oppure d’incitamento all’odio razziale e ad altre forme di discriminazione (art. 1, Legge n. 205/1993, nota come Legge Mancino principale strumento legislativo per la repressione dei crimini d’odio) che, oltretutto, sarebbero titoli di reato autonomi, cioè connoterebbero altri distinti reati perseguibili e che, quindi, si sommerebbero al primo o che costituirebbero appunto un’iscrizione o un’imputazione diversa.
Digressioni a parte, la Procura di Parma dovrà sostenere la tesi per il reato ipotizzato e, orbene, e per il momento, non resta che attendere l’interessante sbocco giuridico dell’eventuale pronunciamento.
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