7° Arte #51: Full Metal Jacket – Il colpo di genio che spara al cuore del cinema

Film del 1987, Full Metal Jacket è l’ennesimo capolavoro di Stanley Kubrick. Il regista americano, dopo Orizzonti di Gloria e Paura e desiderio torna a produrre un war-movie che coinvolge anche una filosofia sull’animo umano

Il Full Metal Jacket è una speciale rivestitura dei proiettili: il nucleo di un modello più morbido viene incamiciato nel nucleo di un modello più duro. Full Metal Jacket è il titolo del capolavoro war-movie di Stanley Kubrick del 1987, e in sé riassume tutta l’opera.

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Full Metal Jacket: un titolo ispirato da una rivista di armi

Quella copertura delle pallottole è un’analogia della corazza dell’uomo che spesso viene definita dagli psichiatri autodifesa. Una lastra esterna caratterizzata da resistenza e durezza, che protegge e soprattutto nasconde una pelle sensibile e fragile. È un fucile davanti il petto, lo scudo davanti al cuore, l’aspetto meccanico che sostituisce quello umano.

La prima metà del film si svolge nel campo di addestramento dei Marines a Parris Island, ci troviamo nel 1967. Assistiamo, con shock e ribrezzo, ai metodi scurrili e rigidi del Sergente Maggiore Hartman, interpretato da Lee Ermey che fu davvero un sergente dei marines e che poi ha prestato le sue capacità oratorie alla Settima Arte, collaborando in molteplici film tra cui Apocalypse Now e prestando la voce al Sergente Giocattolo nel film d’animazione Toy Story.

La prima grande performance di Vincent d’Onofrio

Tra i soldati addestrati spiccano le personalità del soldato Joker, coraggioso e onesto ragazzo desideroso di diventare foto-reporter della guerra in Vietnam, e il soldato Lawrence rinominato Palla di Lardo dal suo sergente maggiore, interpretato da Vincent D’Onofrio che di lì in avanti vedrà andare in discesa una brillante carriera.

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Tra gli ultimi suoi lavori infatti è stata molto apprezzata la performance nella serie televisiva Daredevil in cui è il villain. L’attore dovette metter su ben 35 chili per rappresentare un soldato poco avvezzo alla disciplina, rinominato – di cui sopra – Palla di Lardo e punto di scherno del sergente maggiore che lo umilierà ripetutamente. Il suo vero nome, Lawrence, che dallo stesso sergente viene disprezzato: “Lawrence come? D’Arabia? Non mi sembra”, un richiamo all’epico film Lawrence D’Arabia, si contrappone l’epica in cui l’uomo era al centro della battaglia col genere war-movie in cui la guerra assale, fisicamente ed emotivamente, personaggi e spettatori.

Dal campo di addestramento dal campo di guerra

Sebbene l’ambientazione iniziale occupi solo i primi 45’ di pellicola, l’impatto emotivo risulta fortissimo. Kubrick ci introietta fin da subito in una storia che non parla meramente della guerra, ma ci viene proposta come uno studio filosofico sull’approccio dell’uomo in merito. La follia che invade i soldati lobotomizzati (costretti a radersi ugualmente, annullando ogni aspetto della personalità) prende sempre più piede e raggiunge l’apoteosi nelle scene in cui Palla di Lardo viene picchiato nel cuore della notte dai suoi colleghi e nel finale del primo atto in cui Vincent D’Onofrio diventa un tutt’uno col suo fucile, distruggendo la propria umanità e la propria vita. La claustrofobica follia che implode ricorda molto l’ambientazione dell’ospedale già vista nel film Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman.

Il conflitto tra uomo e macchina che ritorna

Ecco poi immergerci in un secondo atto sul campo da guerra, seguendo il personaggio di Joker. Il giovane coraggioso rappresenta, nelle azioni e nell’aspetto, il duale conflitto dell’animo umano. Da una parte l’elmetto con incisa la frase Born to Kill, ma a contrapporsi notiamo una spilla sul petto col simbolo della pace. Nel seguito della pellicola si scontrano continuamente il bene e il male, l’America e il Vietnam. La guerra e la psiche si influenzano a vicenda come già visto in Apocalypse Now ma lo stile di Kubrick diventa ancor più lampante. Oltre che una fotografia minuziosa e spettacolare nelle scene d’assalto, ritroviamo la tematica – triste e visionaria – dell’uomo che piano piano diventa una macchina, in cui sembra solo Joker l’unico soldato realmente umano. Un processo che schiaccia i sentimenti a discapito della freddezza che necessita la guerra che ricorda la storia che già avevamo apprezzato in Arancia Meccanica.

La versatilità di Kubrick che sfocia sul senso della vita

Ritroviamo lo stesso passato artistico di Kubrick se pensiamo che Full Metal Jacket è un film che affronta la guerra dalla prospettiva dei giovani soldati. Nel 1965, invece, Il Dottor Stranamore dello stesso regista affrontava la guerra fredda dall’ottica dei politici, pellicola farcita di satira e denuncia.

Altro componente angosciante è il ruolo della donna. Quasi totalmente assente nella pellicola, vediamo donne vietnamite pronte a concedersi ai soldati americani, ma sul finale sarà proprio un cecchino donna a cambiare le sorti degli eventi, innescando un finale disturbante e violento.

Emblematico e inaspettato poi, il finale. Joker e i pochi sopravvissuti intonano La Marcia di Topolino. Accanto alla canzone, l’epilogo del film. Il finale è l’uomo che torna indietro, che torna bambino e innocente. Quasi come a voler dire che bisognerebbe resettare tutto, cancellare gli errori, e ricominciare a valorizzare ciò che il film celebra: la vita. Proprio come l’ultimo report di Joker: Dopotutto, sono ancora vivo.

Redazione ZON

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