Glass: Shyamalan e la sua stravagante idea di “cinecomic”

Con Glass, si chiude la trilogia aperta ben diciannove anni fa da Unbreakable. Il maestro M. Night Shyamalan ritorna all’opera, dopo due anni di gestazione

M. Night Shyamalan è uno dei registi più controversi della storia del cinema. Potremmo dividere la sua carriera in tre fasi, distinte e separate tra loro: ascesa, declino e rifioritura. Il tutto in soli 21 anni (27 se si considera anche Praying With Anger). Il regista ritorna alla ribalta con il suo nuovo film, Glass.

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Glass si pone come terzo capitolo di quella che abbiamo scoperto essere una trilogia, costituita da Unbreakable (uscito nel 2000), Split (uscito nel 2016) e proprio quest’ultimo film. Non a caso, raccorda in qualche modo le trame dei due capitoli (ottimi) precedenti, portando il “giustiziere indistruttibile” David Dunn (interpretato da Bruce Willis) sulle tracce dell’Orda, ovvero il criminale Kevin Wendell Crumb (un James McAvoy semplicemente immenso).

Sul confronto, naturalmente, pende l’ombra pesante del vero burattinaio della faccenda, quell’Elijah Price (il machiavellico Samuel Lee Jackson), ovvero “L’Uomo Di Vetro” (da cui deriva il titolo del film), così intelligente, capace ed istrionico.

Le premesse sono esaltanti, per non dire assolutamente eccezionali.

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Il film sui supereroi

Naturalmente, da un crossover di questa portata, che coinvolge due delle migliori opere del regista, non può che nascere un’attesa spasmodica. La vicenda di Glass, almeno nella prima parte, cerca di fare un mash-up dei primi due capitoli della trilogia, convogliando l’emotività di Unbreakable alla tensione di Split (nell’incipit).

Protagonisti, naturalmente, sono David Dunn, Kevin Wendell Crumb ed Elijah Price. Dopo l’ennesimo sequestro di giovani ragazze ad opera dell’Orda, David Dunn promette di dare battaglia al criminale Crumb tramite un confronto diretto. Ma, ad intervenire, è la polizia, che cattura i due criminali e li rinchiude in un manicomio.

Qui giunge il ruolo chiave della dottoressa Ellie Staple (una straordinaria Sarah Paulson), che si propone come obiettivo quello di studiare i comportamenti dei due criminali. Da qui entra in ballo la dimensione “nietzschana” di Glass. Ovvero quella che si propone di studiare i tre criminali (o, se vogliamo, supereroi) dal punto di vista psicologico.

Con il passare del tempo, aumenta tutta l’ansia che un istituto psichiatrico può regalare. Con essa, aumenta anche l’empatia con i tre personaggi, costretti a convivere con tre situazioni completamente diverse, ognuno con le sue paure. Glass instaura un viaggio psicologico che porterà dritti dritti alla soluzione finale, che noi di ZON.it riteniamo quella più congeniale alla storia.

Il mash-up

Glass non è un film perfetto, ma ha i suoi grandi pregi. Innanzitutto, è un film con una regia, stilisticamente, ottima. Shyamalan, da sempre, ci ha abituato ad inquadrature di ben altro calibro rispetto alla maggior parte dei registi hollywoodiani.

Lui pensa a filmare la scena tramite gli spazi non occupati, con inquadrature che possano raccontare una storia, con una tecnica a dir poco eccelsa. Pensa a dirigere l’orchestra accentuando i movimenti della macchina in base alla velocità della scena. Soprattutto, pensa a tenerci sempre sulle spine, sempre tesi sul filo, consapevoli che qualcosa stia per succedere, ma che non si sa il momento preciso. Parleremo quasi di una dimensione action mischiata ad Hitchcock.

Un esempio plateale lo abbiamo proprio in Glass. Infatti, nell’inquadrare strettamente l’occhio di Samuel Lee Jackson, ci accorgiamo che c’è un riflesso dell’immagine che gioca attentamente con il personaggio. Chi meglio di Elijah Price, l’uomo di vetro, può riflettere un’immagine attraverso i suoi occhi e far vedere l’infermiere che poggia la sua sedia al centro della stanza?

Nel film c’è tutto il concetto del cinema di Shyamalan. L’attenzione maniacale per i dettagli, il rapporto negativo tra il regista e l’acqua (soprattutto con David Dunn) e il gioco sul tempo, che rimane correlato a quello odierno (sono passati esattamente 19 anni dalle vicende di Unbreakable anche nella dimensione filmica), nonché una ben celata critica sociale.

Il collegamento con le altre pellicole

Anche la consecutio temporis tra Split e Glass è degna di nota. Il film comincia così come prometteva il suo predecessore: con la caccia dell’Indistruttibile Bruce Willis all’Orda di McAvoy. E inizia con le atmosfere giuste, ovvero quelle che hanno caratterizzato Split. L’aria è più tesa di una corda di violino, il ritmo resta lento, quasi a suggerire l’arrivo di un orrore.

Questo fino all’esplosione dello scontro, dove si innesta la dimensione action, più consona alle fattezze di Unbreakable. Non a caso, proprio in questo frangente, Shyamalan aiuta il pubblico, innestando alcune sequenze girate per il primo film della trilogia nei momenti “morti”.

Da questo punto di vista, almeno nella prima parte, Glass restituisce tutti gli attributi che il pubblico si aspettava dal nuovo capitolo della trilogia. Azione e tensione, una corda sottile tirata all’estremo che si può spezzare da un momento all’altro, come in Unbreakable e Split.

E Shyamalan attua perfettamente questa filosofia.

Discontinuità

La lotta è epica, ma proprio quando arriva al suo massimo, entra l’elemento di disturbo: Sarah Paulson. E forse qui perde il suo slancio. Tutta la tensione cala, si placa e diventa una leggera litania che si concentra forse un po’ troppo sulla pura psicologia dei personaggi.

Qui i protagonisti diventano altri, ovvero la bella psicologa, Mr. Glass e Casey Cooke, interpretata da una sempre emotiva Anya Taylor-Joy. Per quanto sia stata un’ottima trovata, quella di riflettere sugli aspetti dell’unico personaggio la cui storia mancava all’appello, e nonostante l’interpretazione perfetta della Paulson, la storia si rivela altalenante. Il ruolo della Taylor-Joy, per quanto sia più ridotto, appare comunque in ogni caso funzionale, quasi un contraltare alla psicologa.

Il finale resta giusto, degna conclusione di una trilogia che potenzialmente poteva essere fantastica, in tutti i sensi. Ci sono però alcuni rimpianti, e vengono a galla tutti nella parte centrale del film. Laddove c’era sicuramente bisogno di meno prolissità e più concretezza. Soprattutto alla luce dei dialoghi, la vera debolezza di Glass.

Dimenticate la Marvel

In Glass, Shyamalan ha voluto anche instaurare la sua personale critica ad un sistema ormai consolidato e inattaccabile (almeno in apparenza) come quello Marvel. Il suo tentativo con il terzo capitolo è quello di dimostrare che, anche senza bisogno di effetti speciali e di scontri mastodontici, si può fare un cinecomic.

E il regista vi riesce in maniera illuminante, anche innovativa. Nel tentativo di mostrare una dimensione totalmente nuova, si perde leggermente in giri di trama che appaiono inutili. La sensazione, però, è che la trama sia semplicemente un pretesto per smuovere le coscienze e far capire che, dopotutto, dietro la maschera del supereroe c’è, in ogni caso, un uomo.

Come sempre, avanti 100 anni.

Antonio Jr. Orrico

Studente al terzo anno di Scienze della Comunicazione, con una passione innata per il giornalismo, per la scrittura, per la lettura e per la musica.

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