Grand Budapest Hotel, la vita come un colorato universo d’imprevisti
Grand Budapest Hotel, l’ultimo film di Wes Anderson, racconta come un piccolo evento della realtà può diventare una grande storia nella narrazione, rivelando l’autore come un demiurgo
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Grand Budapest Hotel apre il sipario della storia con l’intervento dell’autore del libro, che si rivolge direttamente allo spettatore, il quale rivela i segreti e gli ingredienti di un romanzo. Una piccola situazione della realtà, un personaggio intravisto, un dialogo ascoltato distrattamente, un viaggio in compagnia di persone interessanti, un dettaglio osservato e memorizzato, un’azione compiuta o un sentimento provato: sono solo alcuni degli elementi che miscelati e reinventati nella mente dell’autore diventano opere letterarie, storie di un romanzo, avventure e personaggi memorabili.
Grand Budapest Hotel, film d’apertura della 64esima edizione del Festival di Berlino, è un omaggio a Stefan Zweig, raffinato scrittore degli anni ’20 e ’30, le cui opere furono bruciate dai Nazisti. Anderson s’ispira alla forza immaginativa dello scrittore austriaco, per dare forma al suo nuovo film, immerso in colori pastello che danno un senso di leggerezza e delicatezza, ma anche di finto e di provvisorio. Il pastello infatti, si usa anche per i bozzetti, con cui si stabiliscono i colori che saranno scelti per l’opera finale.
In questo mondo provvisorio e immaginario, Anderson s’identifica nello scrittore, e mostra come anche il film sia un equilibrato miscuglio di tonalità e ritmicità, basato sull’arte del racconto, continuamente rielaborato da chi guarda e sente la realtà. Wes Anderson è da sempre un regista associato alla fantasia burtoniana, non solo per l’estetica, ma anche per la capacità di Tim Burton di colorare ciò che per gli altri è nero e di annerire ciò che per altri è a colori; il cinema legge un libro, guarda fuori dalla finestra, ama e odia, poi sfoga in un turbinio di sequenze e dialoghi il mondo interiore, stratificato e variopinto.
Il Grand Budapest Hotel è ormai abbandonato, sono rimasti solo due uomini a custodirlo, uno di questi è legato alla grande storia del passato dell’Hotel. Si tratta del giovane fattorino d’albergo che affianca M. Gustave, proprio nel momento in cui gli eventi precipitano e si rincorrono tra loro tra equivoci, imprevisti, coincidenze, prigionia, fughe, e piccole storie quotidiane d’amore e follia. Tutto cambia quando una delle donne amata e corteggiata da M. Gustave muore, all’età di 84 anni. Quella di Gustave era una vera e propria passione per le donne molto mature, ma per Madame D. provava un grande amore. Di fronte ai figli, affamati di ricchezza, M. Gustave scopre di essere l’erede diretto di un quadro molto importante: questa scoperta scatena l’ira dei figli e la sua fuga.
Comincia così la trama articolata del film, in schizofreniche capriole narrative con cui tanti e diversi personaggi sfilano, compaiono e scompaiono, bloccano e rimettono in moto gli eventi della straordinaria vita di M. Gustave e del suo fattorino, nell’imprevedibile trapasso dal direttore del Grand Budapest Hotel a uno dei più ricercati.
Un cast magnifico: Saoirse Ronan, Tilda Swinton, Edward Norton, Léa Seydoux, Ralph Fiennes, Owen Wilson, Jude Law, Bill Murray, Adrien Brody, Willem Dafoe, Jason Schwartzman, Jeff Goldblum, Harvey Keitel, F. Murray Abraham. Tutti insieme fanno di Grand Budapest Hotel un omaggio ai volti del cinema contemporaneo, quando anche poche battute rievocano la grandezza dietro ogni singolo attore, e procura piacere nel vedere tutte queste star in un unico film.
Non solo un luogo, ma il Grand Budapest Hotel è anche metafora della vita come momento di passaggio, in cui ogni stanza rappresenta una fase. Nascita, crescita, apice e collasso, poi morte: questa è la vita. Così M. Gustave è la personificazione del percorso esistenziale: nella vita s’impara, si cresce, si migliora. Si raggiungono posizioni importanti, e poi tutto può crollare, anche solo per un dettaglio sottovalutato. Si fugge sempre da qualcosa, ci s’incentiva per superare gli ostacoli, si lascia sempre una parte di sé a chi ci sta accanto. Le cose prendono forma quando ci sono legami umani, e così tutto ha un senso, magari sciocco, ma è pur sempre un senso!
In questo affresco a pastello, delicato e giocoso, Wes Anderson alimenta la carica narrativa del cinema, perché nel racconto c’è sempre un pizzico di verità, un pezzo della realtà che ci circonda. Nel cinema c’è sempre un attimo di vita, tra vero e falso, ma è pur sempre il regista a essere il demiurgo del nostro mondo.
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