3 Maggio 2020 - 17:33

Inglesismi ed etichette: la replica della Hunziker come trionfo di inconcludenza

michelle hunziker

Tra fake news e body shaming, la replica di Michelle Hunziker rappresenta un ottimo spunto di riflessione sull’improprio utilizzo degli inglesismi e sull’abitudine, sempre più diffusa, di catalogare la realtà in semplici etichette

Non ha tardato ad arrivare la replica di Michelle Hunziker alle polemiche che l’hanno vista protagonista nelle ultime ore sui social network. Gli utenti del web, che la accusano di aver prestato la propria voce ad un servizio derisorio sulla giornalista Giovanna Botteri, hanno ricevuto in risposta uno sdegnato sfogo da parte della conduttrice: “Ho visto che si è alzato un polverone incredibile su una fake news totale. Cioè, dicono che noi abbiamo offeso pesantemente una giornalista che si chiama Giovanna Botteri, cosa assolutamente non vera. Perché noi con “Striscia” abbiamo mandato in onda un servizio a favore di questa giornalista, dicendo che tanti media e molti social l’hanno presa in giro per il suo look e invece noi prendiamo atto del fatto che si è fatta un’ottima e una bellissima messa in piega. Questo non è attaccare una persona e soprattutto non è body shaming. Cerchiamo di andarle a vedere le cose prima di accusare”.

La signora Hunziker regala quindi un ottimo spunto di riflessione sulla questione “etichette” e ancor di più sul vasto ma improprio utilizzo che gli italiani – riscopertisi grandi cosmopoliti – sempre più spesso fanno degli inglesismi. La rabbia della conduttrice parte innanzitutto dall’essere stata messa al centro di quella che lei definisce “una fake news totale”, un termine che si è ripresentato spesso in particolare nell’ultimo periodo per sottolineare la necessità di tutelare i fruitori di internet da notizie non verificate. Si cade ad esempio in fake news quando si diffonde una notizia secondo la quale bere tè al limone proteggerebbe dal contagio da Coronavirus, o ancora quando si parla del presunto coinvolgimento di qualcuno in attività illecite senza che i fatti siano stati acclarati. Insomma, per ottenere una fake news occorre strutturare una notizia sulla base di informazioni inventate, distorte o ingannevoli. Si può dire, quindi, che il clamore mediatico generato dallo sdegno collettivo per il servizio di Striscia La Notizia sia una fake news? Le opinioni di chi ritiene offensivo e denigratorio un servizio che cavalca l’onda delle critiche subite da una giornalista, si possono opportunamente definire fake news? È giusto appellarsi al diritto di non essere protagonisti di notizie false quando la notizia è un’interpretazione di un fatto oggettivo?

Agganciarsi al caldissimo tema delle fake news per distogliere l’attenzione dal reale centro della questione non è una tattica originale. Il cognitivista Noam Chomsky parlava di strategia della distrazione come arma per la manipolazione mediatica e sembra che molti esponenti del mondo dello spettacolo abbiano fatto tesoro di questa preziosa pratica, trovando certo terreno fertile in quella fetta di pubblico poco – o per niente – avvezza ad analizzare criticamente ciò che gli viene propinato.

Il labile confine tra etichetta di body shaming e lecita ironia

Ancora più interessante è il modo in cui la conduttrice affronta le critiche relative all’indelicatezza che proprio lei, grande attivista sempre in prima linea per la tutela e la difesa dei diritti delle donne, ha riservato a Giovanna Botteri. Concretamente, l’autodifesa della Hunziker consiste nello spiegare che secondo il programma la giornalista si sarebbe decisa a farsi un’ottima messa in piega e che questo non sarebbe definibile come body shaming. Insomma, se per l’anglicismo fake news non è necessario stare tanto a sottilizzare sull’appropriatezza del suo utilizzo, la conduttrice ci tiene che si rispettino i limiti semantici del body shaming.

È a questo punto che diventa necessario affrontare la questione etichette. Cercare di semplificare la caotica realtà che ci circonda affidandoci a classificazioni per categorie è – per l’appunto – una pretesa troppo semplicistica. Se è vero che etichettare un fenomeno può rappresentare un buon modo per riuscire ad identificarlo con facilità, è anche vero che questo non aiuta a risolvere il problema di quella che in ambito scientifico viene definita “logica fuzzy”, ma che anzi lo aggrava. Oltre ai valori di vero e falso tipici della logica classica, con la fuzzy – estensione della booleana – si prevede la necessità di attribuire a qualsiasi proposizione un certo grado intermedio di verità. Accettare come body shaming l’atto di deridere qualcuno criticandolo per il proprio aspetto fisico non può significare escludere da questa definizione altre sfumature che a questa si riconducono. Cavalcare l’onda mediatica delle critiche al look di una giornalista che spopolano sui social per crearne un servizio a sfondo ironico significa recepire il body shaming, modellarlo e riproporlo in forma diversa, regalando in pasto ai fruitori un contenuto che si rifarà alla stessa materia prima e che di quella continuerà ad essere pregno.

Ma l’errore fondamentale che ha dato agio alla replica della Hunziker risiede proprio nella scelta inopportuna, fatta dal pubblico, dell’inglesismo utilizzato. La criticità reale in questo caso non è infatti quella che erroneamente viene identificata come “body shaming”, ma una questione di più ampio raggio. Per capirci, è la stessa che ha travolto Amadeus nella bufera mediatica in cui si è ritrovato in seguito alla presentazione delle bellissime donne che lo avrebbero affiancato nel 70° Festival di Sanremo. Il problema non è che si parli male dell’aspetto fisico di qualcuno – donna o uomo che sia – , il problema è che se ne parli e che lo si utilizzi come motivo di sterile discussione, anziché impegnarsi – come afferma la giornalista Botteri nella sua replica alle offese ricevute –  per scardinare modelli stupidi, anacronistici, che non hanno più ragione di esistere.