Io non mi arrendo – Analisi e Curiosità
Io non mi arrendo è un ottimo prodotto usa e getta, dato che di certi temi è sempre importante parlare, ma considerarlo più di questo sarebbe un errore.
Eppure, sebbene parlarne sia sempre importante è lecito domandarsi se lo sia anche in questi termini
[ads1]Un prestante poliziotto di Roma indagando su quello che sembra riciclaggio di denaro sporco, si scontra con la realtà tremenda che abbiamo conosciuto come #terradeifuochi: lo smaltimento illogico di rifiuti, urbani e industriali, tossici e non, attraverso l’interramento in zone agricole e, successivamente, attraverso incendi pilotati. Ispirandosi molto liberamente alla figura di Roberto Mancini, poliziotto che ha gettato per primo luce sul baratro di simili abomini, Io non mi arrendo riesce solo a dare un’idea di ciò che è stata la genesi della terra dei fuochi.
Ha suscitato molte perplessità la scelta di ispirare liberamente la miniserie ad un uomo di grandissimo spessore umano e professionale non usandone il nome ma facendo chiaro riferimento a molti trascorsi del suo vissuto, finanche sfruttando l’immagine della moglie per pubblicizzare la pellicola.
Claudicante il risultato finale: è parsa necessaria una puntata di Porta a Porta a sussidio di una corretta intelligibilità di Io non mi arrendo.
[dropcap]L[/dropcap]a narrazione è scorrevole ma non fluida. Particolarmente per la prima puntata della miniserie, alcuni passaggi tra le scene narrative erano telefonati, imposti con frasi di circostanza.
Perché il romanticismo si smercia con più facilità, la storia d’amore tra il protagonista e una bella straniera acqua e sapone ha assunto un rilievo forse esagerato, incastonato nella narrazione come pugni in un incerto balletto.
In effetti, nella prima puntata gli sviluppi sono parsi inanellati con semplicismo, senza finitura di sorta.
Così non è stato per la seconda puntata che è parsa più fluida e – finalmente – l’equilibrio tra romanticismo e contesto ha raggiunto livelli adeguati allo scopo della serie.
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[dropcap]L[/dropcap]e scene dei racconti prediligono ampi spazi, privilegiando scene all’aperto; tutte le scene al chiuso hanno il chiaro peso di messaggi a sostegno della trama: l’appartamento di Marco Giordano ordinato in un perfetto disordine contro la soleggiata villa dell’avvocato Russo con i suoi interni alto-borghesi, gli ambienti luminosi del dipartimento di polizia contro gli ombrosi interni dello studio dell’antagonista.
Anche la superbia dei traffici illeciti alla luce del Sole: gli sversamenti di liquami tanto quanto gli intrallazzi tra politici non solo italiani.
Spesso le ombre attanagliano gli ambienti dei personaggi cupi, contrariamente per i personaggi positivi.
Nella seconda puntata di Io non mi arrendo, si apprezzano scene in cui è decantata la bellezza dei luoghi del boss mafioso che tira le fila del gioco: una casualità molto fortunata che capiti proprio mentre le sorti dell’ispettore vanno capovolgendosi.
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[dropcap]U[/dropcap]na regia senza pretese, questa per Io non mi arrendo, che raggiunge picchi in poche sfumature.
Innanzitutto finezze di regia hanno lasciato notare, ad occhi attenti, come il traffico illecito di rifiuti contemplasse i nostri rifiuti urbani.
Ancora apprezzabile la scelta di montaggio con cui si è condensato in una breve ed efficace sequenza narrativa la cancerogenicità di questo processo illecito di smaltimento, a cominciare dall’innocuo pattume di casa.
Riesce bene anche a rendere l’inimmaginabile stupore nella scoperta della monnezza quale business più fruttuoso della droga: d’altronde, al mondo ci sono meno drogati che produttori di spazzatura.
Scene da action movie, troppo lunghe e per niente degne di un prodotto da prima serata, hanno animato la seconda puntata della mini serie, apparendo più comiche che realiste. Quasi fossero il risultato di una prima esperienza. Tutto risulta molto finto in troppe parti del primo e del secondo episodio.
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[dropcap]L[/dropcap]e musiche in Io non mi arrendo non sembrano avere un senso univoco: eccellente la scelta di un accompagnamento sobrio che non voglia enfatizzare il racconto che accompagna, eppure contestualizzare con sonorità tipiche della neomelodica napoletana i soli momenti di intimità familiare dell’avvocato Russo e consorte rischia di diventare tratto distintivo di quel solo personaggio e della – solo sua – banale quotidianità; in tal modo sembra l’unico, insomma, realmente legato a un tratto culturale, territoriale e quest’impressione – sicuramente errata – sarebbe un luogo comune inaccettabile in un prodotto di un’emittente nazionale.
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[dropcap]L[/dropcap]a serie ha primeggiato con 7 milioni 252 mila spettatori e uno share del 27.75 ma nell’era di Twitter, lo spettacolo televisivo acquisisce una nuova dimensione.
Se parlare durante una proiezione annoia e distrae, leggere frecciatine e commenti lunghi meno di 140 caratteri accelera il ritmo dei racconti più lenti e amplifica l’esperienza attraverso una peculiarità tutta umana: socialità e condivisione.
Dai tweet con hashtag #iononmiarrendo è parso evidente che la più larga aspettativa dell’utenza che ha twittato era verso Giuseppe Fiorello; in proporzione molto meno #terradeifuochi e in misura ancor minore in riferimento a Mancini.
L’interesse per l’argomento cardine della miniserie #terradeifuochi è andato crescendo con lo sviluppo della trama; l’attenzione eccitata ha raggiunto il suo apice con #portaAporta, dimostrando quanto sia sentito l’argomento e quanto più abbia fatto il programma di Vespa – comunque criticato come asservito alla politica.
Durante la seconda puntata sono invece aumentati di molto i tweet ironici e dissacratori, alcuni apprezzabili.
Non solo: grazie ai programmi di informazione che hanno continuato a parlare di Io non mi arrendo, l’hashtag è stato utilizzato durante tutta la giornata di ieri.
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[dropcap] L’[/dropcap]adagio “purché se ne parli” vale anche quando se ne parla in questi termini?
Una delle critiche che si muove ad internet è che il sapere è relativizzato in un cosmo di informazioni indicizzate non per verità ma per parametri che non la contemplano.
La questione sulla terra dei fuochi è un dramma di cui, da poco tempo a questa parte, si parla sempre molto e troppo raramente con organicità.
Una miniserie può solo illudere di accendere le coscienze mentre le anestetizza: penso che la figura di Roberto Mancini sia semplicemente vagheggiata e parlarne in riferimento a questo prodotto filmico serve solo a pubblicizzare la pellicola più che ricordarlo.
Quasi a sussidio, dopo la prima puntata è andato in onda Porta a porta: tralasciando le illazioni di un’ospite dell’Istituto Superiore della Sanità – Loredana Musmeci – che ha avuto il coraggio di imprimere valore scientifico al “dubbio che ci siano reali collegamenti tra tumore e terra dei fuochi” è stato l’unico punto di forza della prima puntata di questa miniserie, togliendo patinatura e incertezza al racconto andato in onda poco prima.
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[dropcap]U[/dropcap]n impegnato Massimo Popolizio che si sforza nella caratterizzazione dell’antagonista, l’Avvocato Russo, non offre altro risultato che una figura imbalsamata nella sua figura di cattivo di turno.
Il problema non è nelle sue capacità e la cartina tornasole è il protagonista di Io non mi arrendo: Beppe Fiorello.
Giuseppe Fiorello è un’eccellenza della cinematografia italiana e dimostra di esserlo anche in questo caso.
Tuttavia, come tutti i personaggi, anche il suo Marco Giordano è un monocromo manichino che risponde alla più innaturale delle regole della cinematografia: il determinismo ineluttabile a cui ogni personaggio è legato e che, quanto più è visibile, tanto più abbassa la qualità del prodotto.
Forse ad argomentare la banalità del male di tanti di questi colossi del crimine, al marmoreo Avvocato è affiancata più volte una mediocre consorte – Biancamaria D’Amato – personaggio di per sé anestetizzato nel limbo di una non profonda consapevolezza di ciò che l’attornia e di cui è parte; pare eletta a ridimensionare il consorte in una nuova luce di piccolezza, attraverso anche a siparietti estemporanei in cui parla col marito dei pasti, realtà di per sé verosimili che si aggrumano distanziandosi troppo dai contesti in cui sono inseriti.
Di contraltare ad una moglie vuota di un personaggio cupo è una figura femminile solare di un personaggio costruito in tutto per sembrare semplice: parliamo della giovane Elena Tchepeleva che, nella prima puntata, ha avuto un ruolo portante al pari del concetto di fondo. Il ruolo di Elena si è stabilizzato in un buon equilibrio nella puntata finale dello sceneggiato, ma lei il più delle volte non è stata all’altezza di ciò che doveva comunicare: dal parto con cui la seconda puntata si è aperta, al discorso con la figlia dodicenne che ne cesellava il termine.
La presenza di questa bella e saggia straniera – nonostante la gaffe di montaggio che hanno ridotto una relazione stabile ad un incontro, una cena insieme e una notte di sesso – e il peso che ha avuto nella prima puntata, hanno dimostrato che tira più una storia d’amore che la cronaca in quanto tale.
Il terzo motore della storia è Vincenzino – Luigi D’Oriano – il preadolescente chiamato Farmacia a causa di tutte le medicine che assume per debellare una grave malattia.
Ancora un motore rotto perché rischia la pedanteria dei protagonisti: nei suoi clichè, nonostante la drammaticità della figura, potevano soprannominarlo bancomat.
Lo salva dalla ripetitività solo la prematura morte, strumentale a sensibilizzare gli spettatori al tema #terradeifuochi.
La seconda puntata ha avuto una fluidità maggiore rispetto la precedente forse perché tutte le informazioni noiose erano state stoccate, immagazzinate e telefonate nella prima; dico questo perché nella seconda puntata nessun personaggio motore si è aggiunto.
La piccola Giulia Salerno, che in questa seconda puntata interpreta il ruolo della figlia dodicenne dell’ispettore Giordano, dimostra quanto sia importante per una interprete così giovane avere un buon attore al proprio fianco: Giulia eccelle nelle scene in solo con Giuseppe Fiorello, ma quando deve interagire con Elena Tchepeleva sembra una pigna in un pineto.
Nessun altro interprete degno di menzione.
I figuranti dimostrano tanta buona volontà, abbastanza da suscitare merito lì dove effettivamente manca; nonostante ciò, scelte di regia penalizzano gravemente la verosimiglianza di certe scene: pensiamo alla seconda puntata e ai litigi così controllati che persino le parolacce sembrano lette su un manuale di bon ton borghese; pensiamo, ancora, alla calma e alla compostezza con cui gli avventori di una tavola calda hanno lasciato il locale sapendo di essere in pericolo di contaminazione radioattiva.
Possiamo parlare male anche della rapina – un discorso tra sordi – e anche dell’ordinato corteo di madri che denunciano la verità sulla terra dei fuochi.
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