2 Marzo 2019 - 13:05

La Casa Di Jack: “l’arte” dell’omicidio secondo Lars Von Trier

La Casa Di Jack

Finalmente, il tanto discusso nuovo film del regista danese, La Casa Di Jack, è approdato in sala. Ed è un film estremamente “artistico”, in tutti i sensi

Lars “Von” Trier. Sì, quel Von non è tratteggiato per pura casualità. Infatti, lo stesso regista, da sempre borioso e pieno di sé, si è “autoetichettato” come un Signore del cinema. E lo ha fatto proprio con quell’animo e quell’ostentazione della propria cultura e di chi guarda tutti dall’alto verso il basso. Il regista ritorna in sala ora con La Casa Di Jack.

Un ritorno tutt’altro che atteso. Anzi, potremmo dire che è stato alquanto inaspettato. Il film, infatti, in molte zone italiane non è nemmeno uscito nelle sale, e dov’è uscito, la censura ha comunque fatto il suo dovere: quello di tagliare le scene più macabre mai girate in un film.

La Casa Di Jack adatta, in qualche modo, la celeberrima vicenda che segnò il quartiere londinese di Whitechapel nell’800, vale a dire quella di Jack Lo Squartatore. Von Trier, però, sceglie di ambientare il tutto al presente, nel 2018. Soprattutto, sceglie di effettuare un vero e proprio ritratto del profilo psicologico e abitudinario del serial killer, interpretato da un Matt Dillon perfetto nella parte dello “squilibrato”.

Lo squartatore, in questo caso, è visto come un vero e proprio artista. Il regista riesce ancora una volta a sorprendere, regalando uno splendido viaggio nella psicologia di questo personaggio. Il racconto di ciò che avviene durante gli omicidi viene considerato una vera e propria sorta di Paradiso per il Jack protagonista della pellicola.

Ma andiamo con ordine e immergiamoci a pieno in questa nuova stravagante avventura. Capiamo prima bene a fondo cosa rappresenta questa fantomatica “casa” per Jack.

L’architetto degli omicidi

In La Casa Di Jack, nulla è lasciato al caso. Il film rappresenta una tragedia divina“, l’opera “magna” di un regista che non finisce mai di provocare e di stupire. La storia ci narra di Jack (interpretato da un Matt Dillon quanto mai in stato di grazia), ingegnere/architetto che costruisce e demolisce continuamente la sua casa dei sogni, progettata per essere composta da “materia organica“.

Jack è un “artista degli omicidi“, un maniaco ossessivo/compulsivo, perfezionista nei dettagli, amante delle uccisioni a 360°. Lo stesso killer narra, in una sorta di racconto biografico con il proprio “accompagnatore”, Virgil (il da poco compianto straordinario Bruno Ganz), le modalità di cinque omicidi (chiamati “incidenti”) che hanno caratterizzato la sua “carriera”. E sono cinque omicidi senza scrupoli, che riguardano donne, famiglie intere, bambini e anche vere e proprie “orgie di uomini.

La partita a scacchi con la polizia incomincia ad assumere dei connotati quasi forzati. Una partita lunga dodici anni, in cui Jack si diverte ogni volta a cambiare modalità e armi. Da fucili da cecchino a cric per l’auto, passando per un semplice coltello.

La Casa Di Jack prende la forma di una vera e propria “epica“, un viaggio attraverso la mente turbolenta di un assassino spietato. Un ritratto psicologico di un genio nel suo campo (chissà che Von Trier non abbia voluto compiacersi, in questo modo).

Il ritorno del Dogma 95

La Casa Di Jack assume dei connotati ben precisi all’interno della filmografia già ricca di Lars Von Trier. Infatti, dopo molti film in cui le “regole” da lui stesso fondate (insieme a Vinterberg) erano quasi state oscurate, vi è il ritorno del famosissimo Dogma 95.

Per chi non conoscesse il movimento, quest’ultimo è formato da un decalogo che impone delle severissime restrizioni ai registi di cui ne fanno parte. Niente luci, nessuna scenografia, niente colonne sonore, rifiuto di ogni espediente al di fuori di quello della camera a mano.

Ed infatti, La Casa Di Jack corrisponde a tutte queste regole. Oltre all’assenza di musiche e di suoni prodotti e alle riprese “on stage”, vi è anche una resa dell’immagine del tutto naturale, completamente evaporata da filtri e aggiustamenti, una narrazione al presente, un formato completamente in 4:3 e soprattutto il “non accreditamento” di Von Trier nei titoli di coda. Oltre ad una regia manuale davvero splendida, che da sola varrebbe il prezzo del biglietto.

Il tutto, questa volta, è funzionale, perché acuisce la veridicità del ritratto dello psicopatico Jack. Matt Dillon funziona a meraviglia sullo schermo, interpreta alla perfezione l’uomo superbo, infernale, lo psicopatico insito in ogni persona, quello che ha bisogno solo di un input per essere scatenato.

Il simbolismo

Von Trier, però, ragiona anche per allegorie e per simbolismi, in maniera ottima. Quindi, Jack assume il ruolo di un ipotetico Dante che viene accompagnato dal suo fido scudiero (che non a caso si chiama Virgil) fino alle viscere dell’Inferno. Le sue vittime, invece, sono dei veri e propri agnelli sacrificali (vedasi la scena dove questi ultimi sono sbranati dalla tigre, ovvero Jack).

La Casa Di Jack ragiona per tutto il film in quest’ottica. Matt Dillon rappresenta l’alter-ego del “mostro” convinto di essersi spinto oltre ogni limite senza aver dato importanza fino in fondo al suo sogno ancestrale, ovvero la costruzione della sua agognata “casa”.

Virgil (un grande Bruno Ganz), invece, lavora per sottrazione. Non compare quasi mai. Accompagna, ma non in senso fisico, quanto cosciente, in qualche occasione e conduce il protagonista al tanto agognato Inferno che sa quasi di liberazione, o di accettazione del proprio ego.

Da questo punto di vista, il film sembra quasi un autoritratto dello stesso Von Trier, un messaggio che il regista vuol dare al mondo, per provocare ulteriormente. Non è un caso, infatti, che nel film vengano contenute immagini celebranti Hitler e la sua fantomatica “genialità“.

Il film diventa una considerazione ancora più ampia delle proprie follie individuali, dei modi di rispondere all’arte senza i confini di moralità e ragione. L’arte non deve mica per forza essere spiegata, d’altronde. Ma solo contemplata.

Il solito Von Trier

D’altronde, però, i difetti di fondo restano sempre gli stessi. Von Trier impone il suo cinema a tutti i costi e lo estremizza, non scende dal suo “piedistallo” e non regala a tutti la possibilità di intravedere questa sua psiche contorta.

La Casa Di Jack può restare un capolavoro fine a sé stesso, in quanto dipende dall’interesse dello spettatore se scavare nelle viscere del film o meno. In molti potrebbero trovare il film esecrabile, pronto a stimolare un disagio perverso senza un motivo preciso. Anche molto disturbante, violento, grottesco, pura esposizione di mutilazioni umane.

La narrazione, inoltre, resta morbosa per quasi tutto il tempo, pesante, avvilente, come a mettere in risalto a tutti i costi l’onniscienza dell’opera e del regista.

Questa è la maggiore pecca di un film che, a suo modo, resta davvero di ottimo calibro. Certo, è una pecca molto grande. Ma per chi vuole fare cinema d’autore nel vero senso della parola (e lui è tra questi), il passaggio per questi lidi è davvero fondamentale.

Il regista danese non è mai stato per le mezze misure. Può piacere o non piacere. L’importante, per lui, è esprimere ciò che ha da dire, e anche ne La Casa Di Jack ci è riuscito a pieni voti. I modi estremi e i tempi dilatati, per lui, non contano. Il solito Von Trier.