Manchester By The Sea, la diegetica di Lonergan sul dolore
Manchester By The Sea è lo straordinario film firmato Kenneth Lonergan. Uscito il 16 febbraio nei cinema italiani, ha ottenuto 6 nomination agli Oscar, conquistando quella per il Migliore Attore Protagonista (Casey Affleck) e per la Migliore Sceneggiatura Originale
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Manchester by the Sea, terzo film di Kenneth Lonergan, talentuoso regista e sceneggiatore newyorkese, ancora ingiustamente sconosciuto presso il grande pubblico, è incentrato sul presente e il passato di Lee Chandler (un credibile Casey Affleck) e la sua famiglia.
L’introspezione su Lee Chandler è la diegesi che Lonergan fa di un personaggio misantropo, un solitario, in realtà un uomo fragile, abbrutito dalla vita.
Nel sobborgo di Boston, un passato tragico aleggia su un ombroso tuttofare che sceglie di vivere ai margini dei rapporti sociali, districandosi tra le voglie represse di casalinghe frustrate e i gesti ripetitivi che scandiscono la quotidianità senza prospettive future: un uomo che tenta di sopravvivere alla devastazione ricorrendo all’anestesia emozionale, affogando il viscerale senso di colpa nel livore, nell’alcool e nelle risse da bar.
Lontano dalla cittadina natale – la Manchester del titolo, nella contea di Essex nel Massachusetts – è costretto a farvi ritorno dopo la morte del fratello, poiché è stato nominato tutore del nipote sedicenne Patrick (Lucas Hedges).
Tra mare e terra, le inospitali e rigide temperature invernali di una baia sepolta dalla neve, le remote uscite in barca e lo sguardo sconfinato sull’oceano incorniciano la costrizione al ritorno.
I ricordi innescati dal forzato “rimpatrio” e dall’incontro con l’ex moglie Randy (Michelle Williams), lo tormentano, palesandosi allo spettatore nei flashback che fanno luce sul suo misterioso passato – in realtà abbastanza intuibile.
Lonergan ci restituisce uno sguardo disincantato nel filmare una convivenza forzata fra Lee e Patrick, mostrandoci gli stadi dell’insofferenza, dell’assuefazione alla compagnia reciproca fino all’innata responsabilità che si risveglia: un iter che nei dialoghi stringati ma sarcastici, sdrammatizza, ma non snatura, il senso ineluttabile di un destino irreparabile.
Così il muro di silenzio che Lee ha costruito nel tempo, interrotto a tratti dal turpiloquio di un’ira repressa, si scontra con l’adolescenza di Patrick e la sua fame di esperienza, di calore umano: un rapporto che abbatte qualche difesa, ma che non può salvare.
Questo drammatico viaggio nella memoria, costellata narrativamente da lutti e metabolizzata dal linguaggio formale di Jody Lee Lipes, la cui magistrale fotografia si riflette emozionalmente nella natura. Il dolore viene così elaborato per assenza, nelle sottrazioni cromatiche e negli appiattimenti luministici dello sfondo paesaggistico, predominato a fasi alterne da una neve glaciale e dal grigiore del cielo e delle distese marine, passando per il senso d’ombra (quello del tormento e della disperazione) che irrompe nel flashback decisivo.
Nel finale tornano le immagini monocrome dell’inizio, con una minore incombenza della neve, perché l’inverno è ormai finito, disgelando il flusso degli eventi in una ridefinizione esistenziale: il ritorno al vuoto esistenziale della periferia di Boston, privo di qualsiasi espiazione. Ancora una volta Lee Chandler tenta di fuggire dal suo passato, ma lasciando uno spiraglio aperto sul suo futuro: un varco innescato dal riaffiorato affetto per Patrick.
Lonergan, evitando ogni retorica, si dedica ad un’intensa narrazione psicologica sul lutto dal punto di vista maschile, in cui il commento fotografico-paesaggistico e quello musicale, spesso distopico – di rilievo l’incursione de l’Adagio di Albinoni – compensano, a volte anche accentuandolo, il carico gravoso della storia.
In sintesi Manchester by the Sea è una struggente sinfonia sulla paura degli affetti perduti, quando le parole non dette pesano più di quelle urlate.
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