16 Maggio 2019 - 18:17

Pet Sematary: la morte raccontata da Kölsch e Widmyer

Pet Sematary

Dopo l’ottimo Starry Eyes, i due autori tornano sullo schermo con un adattamento di King. Pet Sematary “torna in vita”, dopo 30 anni

Era il 1983. Gli anni ’80, che bell’epoca. Un’epoca profondamente segnata (dal punto di vista orrorifico) da un autore che è diventato il masterpiece del genere letterario nel ‘900. Parliamo di lui, quello Stephen King che, ancora oggi, riesce a regalare ottimi prodotti, e di uno dei suoi capolavori, quel Pet Sematary che in tanti hanno osannato fin dalla sua prima uscita, nell’83.

Dopo un primo adattamento cinematografico (tradotto in italiano con l’obbrobrioso ma significativo titolo Cimitero Vivente) che addirittura lo stesso King scrisse, diretto da Mary Lambert, ecco di nuovo che spunta fuori questo cult. Dietro la macchina da presa si insinuano ben due nuovi cineasti che dell’horror fanno il loro genere di punta: Kevin Kölsch e Dennis Widmyer.

Dopo aver rilasciato il sorprendente (davvero, da recuperare per gli appassionati dell’horror) Starry Eyes nel 2014, e dopo aver diretto ben tre episodi della serie Netflix Scream (tratta dall’omonimo film di Wes Craven), i due registi tornano sul grande schermo. E lo fanno davvero in grande stile, con un riadattamento di uno dei libri più famosi della letteratura horror recente.

Il Pet Sematary creato dalla premiata ditta formata dai due cineasti richiama molto di quanto già apprezzato con la loro opera maggiore. Un miscuglio tra atmosfere lugubri e una componente fantasy che i conoscitori della coppia già avranno potuto apprezzare con il loro precedente lavoro. Kölsch e Widmyer, infatti, quasi giocano con il libro di King, riadattandolo e aggiungendo una componente surreale/onirica e anche investigativa che regalano molta più particolarità allo stesso film.

Il soggetto del loro film, come anche dello stesso libro di King, è uno solo: la morte. Tutti i protagonisti, infatti, si dovranno confrontare con l’incombenza più inevitabile. Pronti ad andare in gita nel cimitero degli animali?

Un tranquillo trasloco

La vicenda di Pet Sematary ha tutti i caratteri delle vicende classiche kinghiane narrate, quasi sempre, dallo stesso scrittore all’interno dei suoi libri. La storia è quella di una famiglia disfunzionale, felice apparentemente, ma che conserva i suoi scheletri nell’armadio con estrema cura.

Il medico Louis Creed (Jason Clarke) lascia Boston e si trasferisce nella cittadina di Ludlow, nel Maine, insieme alla moglie Rachel (Amy Seimetz) e ai figli Ellie e Gage (Jetè Lawrence e Hugo e Lucas Lavoie). La loro nuova casa, dispersa nella natura, è situata vicino ad un bosco piuttosto inquietante, dove alcuni bambini si recano con maschere e fare ritualistico.

Tra gli alberi c’è il cosiddetto “Pet Sematary“, cimitero per gli animali vittime degli automobilisti. Ma c’è anche qualcosa di più cupo e terrificante nel cuore della foresta. Lo stesso Louis lo scoprirà insieme al vicino Jud Crandall (John Lithgow), ignorando diversi avvertimenti, anche dall’oltretomba.

Il terrore è servito.

Un remake “d’autore”

Per quanto possa essere un remake, Pet Sematary riesce nel suo intento di accorpare l’horror moderno a quello classico tardo-gotico. Kölsch e Widmyer hanno il merito di portare subito lo spettatore al centro della vicenda, rendendolo subito parte delle relazioni disfunzionali” all’interno dei Creed. I due giocano bene con la componente fantasy e surreale dettata dal libro di King (sebbene l’interpretazione non sia fedele).

Il film nella prima parte presenta una buona componente umoristica, che rende l’atmosfera più leggera, e dei contenuti sì disturbanti, ma posati al punto giusto senza eccedere. L’aria di mistero che avvolge il Pet Sematary coinvolge lo spettatore, trainato anche da continui colpi di scena (uno in particolare, che non sveliamo) e da una dimensione investigativa che ci porta ad identificarci coi protagonisti. Nella seconda, invece, viene fuori un inaspettato cinismo che culmina in un plot twist finale inaspettato, alla luce dello sviluppo della vicenda.

Il lavoro tecnico svolto dalla coppia in cabina di regia è davvero performante, fondendo una fotografia minimal, adatta all’anima del racconto, ad effetti speciali davvero notevoli e una regia adatta per il genere, formata da ottime e brevi piano sequenze e da alcune interessanti panoramiche (come quella iniziale).

Le relazioni interpersonali all’interno della famiglia coinvolgono subito lo spettatore fin dal primo secondo, calandoci a pieno nel mondo di Ludlow. Un mondo ancora retrogrado, ancorato ai valori cattolici e ritualistici. Un esempio è la discussione tra il protagonista e la moglie su ateismo e religione. O anche il rituale della processione fatta dai bambini mascherati (che riporta alle atmosfere di film come il leggendario The Wicker Man e di Kill List di Ben Wheatley).

La caduta nel punto più importante

Se potessimo descrivere brevemente Pet Sematary, parleremmo di un film con un guscio davvero bello, ma che al suo interno conserva un frutto davvero poco interessante e gustoso. Al netto di alcuni jumpscare giocati molto bene, ma che non aggiungono molto ai fini della vicenda, il punto debole è proprio qui: lo sviluppo della trama e dei protagonisti.

Infatti, se per quanto riguarda l’ambiguo John Lithgow (sempre in forma) va tutto come dovrebbe andare, lo stesso non si può dire di Jason Clarke e Amy Seimetz. Una recitazione mediocre, quasi mono-espressiva, che quando tocca le sfere più emozionali delude fortemente. Se il primo si caratterizza per un’apatia assurda, la seconda rende grottesca la paura (naturale) nei confronti di una mamma per ciò che sta accadendo ai figli.

Così si va a snaturare tutto il processo che sta alla base del film. E a quel punto la narrazione troppo lenta (che in un primo momento non stona col film) diventa una forzatura evitabile, che serve solo a far annoiare lo spettatore per il mancato spessore dei protagonisti.

Un vero peccato, perché potenzialmente poteva venir fuori un horror d’autore che avrebbe fatto la storia.