Pierre Huyghe, nato a Parigi l’11 settembre 1962, è un artista cresciuto in ambienti culturali vicini ai movimenti anarchici e punk. La sua ricerca artistica infatti inizialmente si inspirò al Situazionismo e all’arte di intervento urbano.
Alla fine degli anni ’90, questa intuizione rappresentò l’innovazione della tecnica della post-produzione nell’arte. E così nella sua riappropriazione delle immagini cinematografiche, per mezzo di istallazioni a schermo, l’artista induce lo spettatore a completare, nelle lacune temporali del film, l’opera d’arte narrativa.
E se Douglas Gordon – come già scritto – lavora a “readymade temporali”, e Tacita Dean indaga cose e luoghi abbandonati, Pierre Huyghe si inserisce in questo contesto lavorando a qualcosa che oscilla tra l’installazione privata e l’archivio pubblico. Nella sua arte Huyghe porta all’estremo le complicazioni postmoderniste dell’originalità e dell’autorialità artistica, includendovi anche le contaminazioni tra artista e spettatore, e tra gli stessi artisti, propendendo ad una creatività fondata innanzitutto sulla condivisione.
A questo punto lo spettatore si ritrova totalmente disorientato: non si sa più chi è cosa, e chi fa cosa. Siamo dinanzi all’opera d’arte nell’epoca della globalizzazione e della post-produzione, come affermato dal critico francese Nicolas Bourriaud. Ovvero assistiamo al risultato di manipolazioni che conferiscono all’opera d’arte un fondamento diverso, che si basa su una connaturata analisi – se non su una vera e propria posizione critica – dell’epoca dell’iper-informazione, e quindi intrinsecamente di disinformazione.
Un secolo fa le provocazioni di Duchamp hanno rappresentato un attacco sarcastico all’arte alta quanto alla cultura di massa, mentre questa più recente tendenza artistica, di cui Pierre Huyghe è un componente di spicco, è uno spazio di manipolazione per la riappropriazione del vero, uno spazio di approfondimento e di condivisione sociale, dove prendere parte ad un’esperienza ludica e spesso quasi psicoterapeutica.
Pierre Huyghe, come molti artisti del “contemporaneo”, preleva dal cinema il linguaggio per trasformarlo in un oggetto, in una materialità su cui costruire e modellare l’opera d’arte finale, che spesso culmina in un’installazione. Figli del ‘900, gli artisti in questione vogliono discernere la grammatica dalla semantica, per riformulare e portare ad un senso nuovo della cultura e dell’arte. Il cinema rappresenta la sfida più affascinante, lo scoglio da arginare e con cui attualizzare la logica dell’arte contemporanea. In tale prospettiva, il quadro non è in crisi, ma va ridipinto con tecniche e colori diversi; così come la scultura, che non è atemporale, ma merita di essere ricollocata, riplasmata.
L’Ellipse, del 1998, è un esperimento artistico di Pierre Huyghe che si inserisce pienamente nel rapporto, complesso eppure catalizzante, tra arte contemporanea e cinema, mettendo al centro della ricerca la componente che unisce le due dimensioni: il tempo.
Il tempo della scultura o del quadro si estendono nel tempo dell’installazione, allo stesso modo in cui il tempo del racconto e il tempo della narrazione convivono nella dialettica del montaggio ellittico.
La riformulazione artistica di Huyghe, nell’installazione Ellipse tratta da Der amerikanische Freund (1977; L’amico americano) di Wim Wenders, analizza il montaggio ellittico per creare una sintesi narrativa che pone lo spettatore nella condizione di fruire un film, ossia il mezzo con cui si narra per comunicare con una certa finalità e funzionalità.
Pierre Huyghe, per estremizzare il linguaggio cinematografico e quindi per impossessarsi della materialità su cui “poggiare” (metaforicamente) la sua scultura o il suo pennello, preleva il tempo della narrazione dal film di Wenders e lo estende a tempo del racconto. L’artista si sofferma sul tragitto del protagonista, B. Ganz, mentre attraversa quotidianamente un ponte. Il montaggio ellittico è la scrittura con cui si dichiara, alla maniera del cinema, l’azione e il contenuto. Portando in “scena” il tempo “realistico”, Pierre Huyghe cerca di annullare il montaggio spazio-temporale per soffermarsi sul percorso.
In una proiezione simultanea di tre scene filmate, è come ricordare Napoléon di Abel Gance con un piede nel futuro: l’archivio è, così, memoria che si trasforma.
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