6 Novembre 2018 - 07:00

L’incomprensibile e imbarazzante sesta stagione di House of Cards

House of Cards

La sesta stagione di House of Cards segna il punto più basso della serie. Robin Wright non può nulla contro una sceneggiatura scialba e l’assenza “ingombrante” di Kevin Spacey

Delle straordinarie prime stagioni, House of Cards non ha più nulla. Gli ultimi otto episodi hanno dimostrato di essere l’ultimo inesorabile spasmo. Di vivo, di concreto c’è rimasto ben poco. Una chiusura stanca, quasi disperata. House of Cards non lo meritava, Robin Wright e Kevin Spacey non lo meritavano.

La narrazione, per quanto lineare possa essere, si affaccia con velocità repentina. La  famiglia Shepherd, intesa immediatamente come elemento antagonista della presidente Underwoodh-Hale, entra nella storia in maniera sottintesa, come un concetto esistito a priori. Vengono menzionati vecchi legami con Francis che tengono imbrigliata e in “ostaggio” l’inquilina della White House. Ma la presentazione è sbrigativa, senza parlare dell’oscura materia che tiene legati gli interessi di Bill e Annette Shepherd al Future Act, che viene solo a volte menzionata.

Le basi, le colonne dell’intreccio narrativo sono evanescenti, deboli, uno sfondo dove i personaggi si rapportano con frasi di circostanza, sempre e comunque ruotando sul ricordo di Frank Underwood. Persino le sue rievocazioni sono l‘elemento che maggiormente permeano l’ultima stagione. Come un’ombra che lentamente assorbisce ogni personaggio, monopolizzando l’intera storia.

Se questa doveva essere la stagione della consacrazione e dell’emancipazione totale di Claire, ciò non è stato ravvisato. Il “my turn” non è scoccato, anzi, per gran parte degli episodi la donna più potente del mondo libero è stata relegata a semplice personaggio spara-frasi-ad-effetto. Le sue macchinazioni sono totalmente lontane da quelle di suo marito, spariti i magheggi politici, sparite le coercizioni punitive pensate e ragionate, soltanto sbiadite le mosse della Hale che tenta, inutilmente, di essere diversa da Francis, fino a diventare soltanto una triste caricatura. Persino l’appiglio alla parità di genere non sembra fare breccia, anzi si perde nella confusione generale. Tuttavia, in maniera indiretta o meno, Claire/Robin qualcosa dimostra: le donne possono essere malvagie e spietate tanto quanto gli uomini.

La serie si è costruita nel tempo attraverso dei momenti delicati, assolutamente incredibili ed apparentemente impossibili, ma realizzabili grazie al genio, all’ambizione smisurata e alla smania di potere di Frank. Ora, le circostanze diventano normali o, peggio ancora, un ritaglio delle dinamiche della scorsa stagione: si veda la costruzione del regime del panico.

L’assenza di Spacey ha costretto gli sceneggiatori a far accadere fatti fuori dallo schermo, come se si trattasse di un dramma shakespeariano. L’evento è solo raccontato attraverso altri personaggi, o mediate alcuni flashback che si rivelano poco incisivi. Tutti i personaggi risultano essere dei semplici mezzi, effimeri soggetti utili per chiudere finalmente un cerchio.

E se la preparazione al finale di stagione è stato pressoché incerto e confuso, il finale stesso è l’ultima indecente evirazione che House of Cards non meritava. Semplicemente non si tratta di un finale. Non accontenta nessuno. Perché la citazione che rimanda all’iconica scena del primo episodio del “No more pain”, è debole. Si è voluto trattare la storia in una sequenza ciclica, dove Doug doveva essere l’anello conciliate. Troppo semplice e allo stesso tempo troppo forzato. Eppure sembra chiaro, in quello studio ovale, alla fine dei giochi, doveva esserci qualcun altro.

Siate nostalgici e riavvolgete il nastro: trovate voi un diverso finale. Trovatelo al termine della quarta stagione, con quel magnetico sguardo nella camera, con l’inizio della cavalcata verso le presidenziali, oppure al termine della quinta con l’ultima drammatica apparizione di Francis Underwood. Oppure, semplicemente, trovatela nei meravigliosi momenti del finale della seconda stagione, riascoltando attentamente il suono dell’anello di F.U. che batte sul pregiato legno della scrivania dello Studio Ovale.

In definitiva, poteva esserci finale peggiore? Difficile. Poteva esserci un finale diverso? Assolutamente sì. Poteva esserci Claire Underwood senza Francis Underwood? Improbabile, quasi impossibile. Poteva esserci una sesta stagione senza Kevin Spacey? Sapete già la risposta.

Ma vogliamo ricordarli così