111 milioni di spettatori, nei primi 15 giorni dal debutto, sono stati incollati a Netflix per vedere Squid Game. La nuova ed intrigante produzione coreana, ideata dalla fantasia di Hwang Dong-hyuk, ha persino battuto l’appeal di Bridgerton dell’inverno scorso. Qual è il segreto per produrre numeri globali così impressionanti?
Partiamo dal titolo: Squid Game, ovvero letteralmente “Il gioco del calamaro“. Si tratta un gioco di strada o da cortile che i bambini coreani conoscono da intere generazioni. La storia mette al centro donne e uomini indebitati fino al collo che rischiano la propria vita pur di intascare un montepremi di 45,6 miliardi di won. Come? Sottoponendosi ad una serie di giochi disturbanti e disumani che si svolgono su un’isola misteriosa.
La “battle royale” che ne deriva non è un unicum nel panorama seriale (ricordiamo Alice in Borderland), ma il modo in cui si sviluppa ha dell’originale. Contrapporre l’innocenza dei giochi infantili alla brutalità dei risvolti crea un ampio cortocircuito cognitivo. Le sensazioni di paura e di sgomento si irrobustiscono nello spettatore e la prospettiva si allarga. Il gioco al massacro si presta così ad una chiave di lettura sociologica e psicologica. I giocatori si sfidano per vincere il montepremi o per darsi una seconda possibilità di protagonismo, uguaglianza, riscatto? Alla fine vincerà chi sottometterà gli altri alle leggi del proprio inferno personale o chi, nell’inferno, riuscirà ad intercettare il fantasma di una pietas incorrotta? E soprattutto, ci sono davvero vincitori e sconfitti in questa storia?
La serie piace soprattutto perché, sotto la patina della violenza più aberrante, suggerisce i nostri obblighi emotivi e morali nei confronti dell’altro. La necessità di conservare la fiducia e la compassione, pur nella miseria. Di non uniformarsi al linguaggio della crudeltà, dell’indifferenza, del sadismo. Insomma, invita a rimare umani e connessi in una società che avvilisce, aliena e spersonalizza. I punti di forza sono l’iconografia caratterizzante, il cromatismo riconoscibile, le musiche accattivanti, e una sceneggiatura potente che fa risaltare tridimensionalmente la disperazione umana.
A parte le polemiche fuorvianti sulla censura per i bambini, Squid Game è una serie cruda e bellissima. Una serie che va letta con una lente tutt’altro che semplicistica e che risulta efficace e credibile proprio perché porta in campo le pedine emarginate di un “sottobosco” che non hanno più nulla da perdere. Il fiore di ibisco – a cui allude l’inquietante bambola a mo’ di filastrocca – forse non è sbocciato, ma la nostra curiosità per una seconda stagione decisamente sì.
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